Se morisse mio marito by Agatha Christie
My rating: 4 of 5 stars
"Entrammo nel salotto. La vedova stava provando alcuni cappelli davanti allo specchio. Aveva indossato un abito elegante in bianco e nero. Ci accolse con un sorriso luminoso"
LA VEDOVA ALLEGRA
Dopo aver imbroccato una dopo l'altra una sequela di letture al più mediocri e al peggio terribili, sentivo la necessità di trovare rifugio in un porto sicuro. E chi meglio della cara Agatha poteva darmi il tanto necessario riparo? in particolare, la mia scelta è ricaduta su uno dei suoi più apprezzati gialli tra quelli in cui compare la figura del pavonesco Hercule Poirot, ossia "Se morisse mio marito". Un titolo che stravolge nella forma l'originale britannico, pur mantenendone la sostanza, a differenza di quanto succede con la discutibile versione statunitense "Thirteen at Dinner": avrà anche senso nel contesto della narrazione, ma non trasmette granché per quanto riguarda il giallo di fondo.
Come spesso accade, ci troviamo in un momento storico parallelo al periodo di pubblicazione, ovvero gli anni Trenta. In realtà, la premessa ci informa che gli eventi raccontati hanno avuto luogo tempo prima, ma solo adesso il solito capitano Arthur Hastings si sente pronto a svelarli al grande pubblico. Il motivo di tanto mistero è presto detto: la vittima è George Alfred St. Vincent Marsh, quarto baronetto di Edgware, una figura tanto in vista da suscitare un certo interesse da parte dei curiosi. Prima di arrivare al delitto assistiamo però all'incontro tra il duo protagonista e l'attrice Jane Wilkinson, moglie di Lord Edgware dal quale spera di ottenere presto il divorzio grazie proprio al buon Hercule. Questi suoi tutt'altro che discreti propositi la portano a finire logicamente in cima alla lista dei sospettati non appena il cadavere dell'uomo viene rinvenuto soltanto un paio giorni dopo nella biblioteca.
Il cast è ancora una volta formato da personaggi molto carismatici, seppur a tratti caricaturali; tra questi spicca ovviamente Jane Wilkinson, nei panni della vedova meno affranta della Storia, però anche caratteri meno centrali -come l'imitatrice Carlotta Adams ed il capitano Ronald Marsh, che si fa subito notare per l'eccessiva sicurezza di sé- riescono a incuriosire il lettore. Ovviamente Poirot ed Hasting sono sempre dei protagonisti piacevoli da seguire, e la loro dinamica risulta al solito efficace grazie ai continui punzecchiamenti, anche se avrei preferito qualche risposta accomodante in meno da parte dell'ex capitano. Un altro elemento interessante all'interno del cast è l'ispettore James Japp, già apparso in altri romanzi e racconti, che qui si fa carico di una parte delle stroncature di Poirot, incassandole quasi con orgoglio.
Il secondo, grande merito della prosa è quello di delineare un mistero complesso e ben articolato, seppur all'apparenza possa risultare più semplice da seguire rispetto ad altri. Questa sensazione non rende però meno avvincente la lettura, anzi per quanto mi riguarda sono convinta possa spronare ancor di più il lettore a mettere al lavoro le sue celluline grigie. Come sempre, sistemare al posto giusto tutti i pezzi del puzzle non è affatto semplice, eppure il punto di vista più rintronato del solito di Hastings penso possa fornire un piccolo aiuto in questo senso.
E nel caso i suoi granchi clamorosi non vi sembrino sufficienti, potete sempre ripiegare sulla prefazione, che fornisce dei suggerimenti alla risoluzione del giallo fin troppo spoilerosi per i miei gusti: forse sarebbe stato meglio leggerla una volta terminato il romanzo! In generale, la recente edizione non brilla per qualità, essendo farcita da un gran numero di refusi, in alcuni casi di battitura ma sopratutto nella coniugazione dei verbi. Una constatazione alquanto infelice se consideriamo che si tratta di un classico pubblicato quasi un secolo fa, e dal prezzo tutt'altro che conveniente.
Voto effettivo: quattro stelline e mezza
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giovedì 30 maggio 2024
venerdì 24 maggio 2024
"Otel Bruni" di Valerio Massimo Manfredi
Otel Bruni by Valerio Massimo Manfredi
My rating: 2 of 5 stars
"I Bruni abitavano la stessa casa e lavoravano lo stesso podere da cento anni, ma forse anche da più: nessuno in fondo aveva tenuto i conti e nessuno ricordava da dove venissero"
E COSÌ SPERO DI VOI...
Pur avendolo sentito spesso nominare e consigliare, non mi era mai capitato di leggere nulla di Manfredi, però avevo da diversi anni in libreria una copia recuperata un po' per caso di "Otel Bruni", quindi ho deciso di dare una possibilità alla sua prosa. Forse avrei dovuto essere più accorta nella mia scelta perché questo romanzo si è rivelato non solo una lettura dagli oggettivi problemi contenutistici, ma anche un genere di narrazione poco in sintonia con i miei gusti letterali.
La storia si ambienta nella prima metà del Novecento in un paesino della campagna emiliana e romanza la vita quotidiana della famiglia contadina Bruni, antenati dell'autore stesso. Seguiamo principalmente i figli e le figlie dei capostipiti Callisto e Clerice, vedendo come l'iniziale unità familiare venga progressivamente intaccata tanto dai grandi eventi della Storia quanto dai piccoli contrasti domestici. Sullo sfondo si intravede il cosiddetto Otel Bruni, la grande stalla di famiglia dove amici e viandanti trovano ristoro in caso di necessità.
E già qui troviamo il primo problema, dal momento che di questo Otel Bruni vediamo davvero poco: sembra rilevante nella scena d'apertura, ma poi diventa un'ambientazione come le altre, tanto che durante la Prima Guerra Mondiale viene completamente abbandonato mentre seguiamo le vicende dei giovani Bruni al fronte. Questo si collega alla seconda, grave mancanza del romanzo, ossia la scelta di raccontare o perfino riassumere una gran parte degli eventi anziché mostrarli direttamente al lettore. In questo modo si perde del tutto la premessa narrativa alla base del libro: non incontriamo quasi mai le persone ospitate nell'Otel Bruni, non vediamo i Bruni accogliere qualche sventurato, non percepiamo l'atmosfera di convivialità che questa propensione all'ospitalità dovrebbe creare.
Rimanendo sul piano oggettivo, altri difetti sono rappresentati dalla presenza di troppi personaggi, tutti carenti sul fronte della caratterizzazione. Reputo assurdo poi che figure teoricamente rilevanti -come le mogli di alcuni fratelli- non vengono neppure menzionate, mentre a caratteri estranei alle dinamiche familiari venga dedicato parecchio spazio. A livello d'intreccio abbiamo davvero poco materiale, tanto che nell'epilogo il caro Valerio Massimo sembra quasi colpito da un'epifania e, realizzato di non aver seguito una vera trama, inserisce un colpo di scena con cui tenta (fallendo) di chiudere un cerchio immaginario.
La prosa dell'autore crea inoltre uno scollamento tra le premesse narrative e la loro effettiva resa; un chiaro esempio è rappresentato dal capitolo dedicato alla lettera del notaio genovese: il lettore viene informato che questo evento sconvolgerà gli equilibri tra i Bruni, ma a fine capitolo Manfredi si premura di sottolineare di come nessuno si occuperà più della vicenda. In relazione allo stile va poi specificato che in più passaggi si ha l'impressione di leggere un manuale agricolo o un saggio storico anziché un romanzo, e mi sembra davvero strano dirlo (visto che di solito le mie lamentele virano nel senso opposto) ma avrei di gran luga preferito trovare meno Storia e più storia in questo libro.
Altre critiche personali riguardano la scelta di avere soltanto personaggi puri e buoni come protagonisti -perché tendo a preferire dei caratteri meno perfetti e più verosimili-, ed il sottotesto nostalgico e patetico che trasuda dall'intera narrazione: rimpiangere continuamente un passato idealizzato non fa proprio per me! Come non fa per me la retorica della disgregazione familiare, qui perfino priva di sostanza dal momento che, benché i Bruni abitino nel podere da almeno un centinaio di anni, non vediamo nessuno dei fratelli di Callisto quindi anche il loro nucleo è il risultato di una qualche sorta di scissione.
In barba alla negatività, voglio nominare anche qualche aspetto positivo del romanzo. Innanzitutto mi ha stupito non poco la scorrevolezza del testo, a dispetto dell'ampio utilizzo di dialettismi anche al di fuori dei dialoghi; dialettismi che hanno comunque il pregio di rendere la storia in linea con il contesto culturale. Pur non avendole apprezzate appieno, mi sento di menzionare (e lodare!) nuovamente l'accuratezza storica e l'ambientazione realistica, che permettono una buona immersione nelle vicende raccontate. Per ultimo cito l'elemento folcloristico, che si mescola ad una sorta di realismo magico e dona un tocco di colore ad una storia altrimenti in bianco e nero.
Voto effettivo: due stelline e mezza
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My rating: 2 of 5 stars
"I Bruni abitavano la stessa casa e lavoravano lo stesso podere da cento anni, ma forse anche da più: nessuno in fondo aveva tenuto i conti e nessuno ricordava da dove venissero"
E COSÌ SPERO DI VOI...
Pur avendolo sentito spesso nominare e consigliare, non mi era mai capitato di leggere nulla di Manfredi, però avevo da diversi anni in libreria una copia recuperata un po' per caso di "Otel Bruni", quindi ho deciso di dare una possibilità alla sua prosa. Forse avrei dovuto essere più accorta nella mia scelta perché questo romanzo si è rivelato non solo una lettura dagli oggettivi problemi contenutistici, ma anche un genere di narrazione poco in sintonia con i miei gusti letterali.
La storia si ambienta nella prima metà del Novecento in un paesino della campagna emiliana e romanza la vita quotidiana della famiglia contadina Bruni, antenati dell'autore stesso. Seguiamo principalmente i figli e le figlie dei capostipiti Callisto e Clerice, vedendo come l'iniziale unità familiare venga progressivamente intaccata tanto dai grandi eventi della Storia quanto dai piccoli contrasti domestici. Sullo sfondo si intravede il cosiddetto Otel Bruni, la grande stalla di famiglia dove amici e viandanti trovano ristoro in caso di necessità.
E già qui troviamo il primo problema, dal momento che di questo Otel Bruni vediamo davvero poco: sembra rilevante nella scena d'apertura, ma poi diventa un'ambientazione come le altre, tanto che durante la Prima Guerra Mondiale viene completamente abbandonato mentre seguiamo le vicende dei giovani Bruni al fronte. Questo si collega alla seconda, grave mancanza del romanzo, ossia la scelta di raccontare o perfino riassumere una gran parte degli eventi anziché mostrarli direttamente al lettore. In questo modo si perde del tutto la premessa narrativa alla base del libro: non incontriamo quasi mai le persone ospitate nell'Otel Bruni, non vediamo i Bruni accogliere qualche sventurato, non percepiamo l'atmosfera di convivialità che questa propensione all'ospitalità dovrebbe creare.
Rimanendo sul piano oggettivo, altri difetti sono rappresentati dalla presenza di troppi personaggi, tutti carenti sul fronte della caratterizzazione. Reputo assurdo poi che figure teoricamente rilevanti -come le mogli di alcuni fratelli- non vengono neppure menzionate, mentre a caratteri estranei alle dinamiche familiari venga dedicato parecchio spazio. A livello d'intreccio abbiamo davvero poco materiale, tanto che nell'epilogo il caro Valerio Massimo sembra quasi colpito da un'epifania e, realizzato di non aver seguito una vera trama, inserisce un colpo di scena con cui tenta (fallendo) di chiudere un cerchio immaginario.
La prosa dell'autore crea inoltre uno scollamento tra le premesse narrative e la loro effettiva resa; un chiaro esempio è rappresentato dal capitolo dedicato alla lettera del notaio genovese: il lettore viene informato che questo evento sconvolgerà gli equilibri tra i Bruni, ma a fine capitolo Manfredi si premura di sottolineare di come nessuno si occuperà più della vicenda. In relazione allo stile va poi specificato che in più passaggi si ha l'impressione di leggere un manuale agricolo o un saggio storico anziché un romanzo, e mi sembra davvero strano dirlo (visto che di solito le mie lamentele virano nel senso opposto) ma avrei di gran luga preferito trovare meno Storia e più storia in questo libro.
Altre critiche personali riguardano la scelta di avere soltanto personaggi puri e buoni come protagonisti -perché tendo a preferire dei caratteri meno perfetti e più verosimili-, ed il sottotesto nostalgico e patetico che trasuda dall'intera narrazione: rimpiangere continuamente un passato idealizzato non fa proprio per me! Come non fa per me la retorica della disgregazione familiare, qui perfino priva di sostanza dal momento che, benché i Bruni abitino nel podere da almeno un centinaio di anni, non vediamo nessuno dei fratelli di Callisto quindi anche il loro nucleo è il risultato di una qualche sorta di scissione.
In barba alla negatività, voglio nominare anche qualche aspetto positivo del romanzo. Innanzitutto mi ha stupito non poco la scorrevolezza del testo, a dispetto dell'ampio utilizzo di dialettismi anche al di fuori dei dialoghi; dialettismi che hanno comunque il pregio di rendere la storia in linea con il contesto culturale. Pur non avendole apprezzate appieno, mi sento di menzionare (e lodare!) nuovamente l'accuratezza storica e l'ambientazione realistica, che permettono una buona immersione nelle vicende raccontate. Per ultimo cito l'elemento folcloristico, che si mescola ad una sorta di realismo magico e dona un tocco di colore ad una storia altrimenti in bianco e nero.
Voto effettivo: due stelline e mezza
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lunedì 20 maggio 2024
"Rebel. Il deserto in fiamme" di Alwyn Hamilton
Rebel. Il deserto in fiamme by Alwyn Hamilton
My rating: 1 of 5 stars
"Cercai di pensare velocemente a una buona bugia, ma la lingua non mi aiutò.
Le gambe, invece, non potevano tradirmi"
APPROPRIAZIONE CULTURALE Q.B.
Mi rendo conto che a volte sono un po' prevenuta nei confronti della narrativa per ragazzi, ma anni ed anni di letture al massimo mediocri sbandierate come capolavori imperdibili mi hanno portato ad essere sempre più diffidente verso questo target. E purtroppo "Rebel. Il deserto in fiamme" non si è dimostrato un'eccezione alla regola, rivelandosi un'amalgama composta da cliché già visti in centinaia di altri libri ed una prosa decisamente infantile. Anche comprensibile, dal momento che si tratta proprio dell'esordio di Hamilton, ma impossibile da accostare alla definizione «straordinariamente originale e affascinante» data dalla CE italiana.
Per inventare il suo universo narrativo, la cara Alwyn unisce un contesto simil-mediorientale tanto in voga nel panorama fantasy una decina di anni fa con degli elementi tipici dei film western, come pistole, ferrovie, miniere e canyon; il tutto viene racchiuso nel quadro del solito governo oppressivo che un manipolo di adolescenti dovrà debellare. In questo scenario veniamo affidati al POV di Amani Al'Hiza, una ragazza proveniente dall'Ultima Contea, dove abbondano soltanto povertà e proiettili; mentre porta avanti il suo piano per sfuggire ad un matrimonio impostole dalla famiglia, Amani incrocia la strada del ricercato Jin con il quale partirà alla volta della lontana Izman, capitale del sultanato Miraji.
Una premessa non troppo originale, ma con del potenziale; potenziale che l'autrice si prodiga per sprecare in ogni modo possibile. In realtà alcuni aspetti riusciti ci sono, seppur risibili e marginali; un esempio è dato dall'idea di far intraprendere un percorso di scoperta interiore alla protagonista, che passa dal coltivare vaghi progetti di libertà personale all'impegnarsi in modo serio per migliorare le condizioni di vita di tutti nel suo Paese. Per quanto bizzarra, ho trovato carina anche l'idea di accostare elementi tanto lontani per arricchire questo mondo fantastico, inoltre ho apprezzato il messaggio egualitario di fondo pur trovandolo eccessivamente didascalico e ripetitivo.
In definitiva, i pregi sono pochi e neppure troppo solidi, quindi passiamo ai tanti tasti dolenti. Partiamo con la narrazione, che ho trovato troppo rapida e caotica: si passa da una scena all'altra senza che i personaggi stessi abbiano avuto il tempo di assimilare gli avvenimenti; lo si vede molto bene nel momento in cui scoprono senza troppo stupore la distruzione di Dassama, ad esempio. La cara Alwyn arriva perfino a saltare a piè pari intere scene, che poi riassumele all'inizio del capitolo successivo; questo dovrebbe forse rendere più scorrevole la lettura, ma a me è sembrato solo una furbata per agevolare il percorso dei protagonisti e passare ai momenti che trovava più interessanti.
A dispetto dello spunto insolito, il world building fa acqua da tutte le parti, sia perché non viene mai chiarito il motivo di questo miscuglio culturale sia per la pesante presentazione, realizzata ricorrendo a lunghi spiegoni piazzati nei momenti meno opportuni. Ad esempio, all'inizio del romanzo la protagonista entra nel negozio dello zio e, dopo averci informato di averlo trovato vuoto, passa ad elencarci tutte le creature soprannaturali che potrebbero entrarci nella notte; una scelta a dir poco bislacca, dal momento che il locale è deserto e non vedremo nessuno di questi esseri fantastici nell'immediato futuro.
Passando ai personaggi, devo dire di aver trovato un eccessivo numero di comprimari, che in un volume dove la narrazione è tanto rapida a passare da un contesto all'altro finiscono inevitabilmente per essere caratterizzati in base a degli stereotipi; inoltre, mi sorge il dubbio che una buona parte di loro sia stata inserita come mero riempitivo e per questo non ricomparirà più. Ovviamente l'insopportabile protagonista non migliora la situazione: Amani è spavalda ed incosciente per il gusto di esserlo, inoltre dimostra una superficialità ed un egoismo non solo imbarazzanti -se consideriamo che l'autrice vorrebbe venderla come un'eroina intrepida- ma anche in contraddizione con le tragedie alle quali ha assistito.
D'altro canto in questo romanzo disgrazie e morti violente vengono superate con estrema leggerezza, perdendo così gran parte della propria carica emotiva. Una carica che non si riprende quando passiamo alla sottotrama romance, sviluppata in maniera eccessivamente veloce e forzata; si percepisce in modo chiaro la mano dell'autrice dietro il presunto innamoramento tra due personaggi con poco in comune e solo una manciata di interazioni degne di nota.
E come poteva l'edizione nostrana non peggiorare ulteriormente la situazione? sia con una traduzione poco attenta, sia con la mancanza di mappa e glossario. Avrei apprezzato anche delle note che chiarissero il significato delle tante parole in arabo; da lettrice, posso anche intuire che la sheema sia una sorta di copricapo, ma sarebbe stato molto più interessante leggerne una chiara descrizione, magari incorporata in modo omogeneo al testo. Va precisato che questo sforzo non è stato fatto neppure nell'edizione originale, e ciò aumenta la mia impresso secondo cui l'autrice avrebbe adattato una storia di stampo distopico al contesto mediorientale per motivi di marketing.
Voto effettivo: una stellina e mezza
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My rating: 1 of 5 stars
"Cercai di pensare velocemente a una buona bugia, ma la lingua non mi aiutò.
Le gambe, invece, non potevano tradirmi"
APPROPRIAZIONE CULTURALE Q.B.
Mi rendo conto che a volte sono un po' prevenuta nei confronti della narrativa per ragazzi, ma anni ed anni di letture al massimo mediocri sbandierate come capolavori imperdibili mi hanno portato ad essere sempre più diffidente verso questo target. E purtroppo "Rebel. Il deserto in fiamme" non si è dimostrato un'eccezione alla regola, rivelandosi un'amalgama composta da cliché già visti in centinaia di altri libri ed una prosa decisamente infantile. Anche comprensibile, dal momento che si tratta proprio dell'esordio di Hamilton, ma impossibile da accostare alla definizione «straordinariamente originale e affascinante» data dalla CE italiana.
Per inventare il suo universo narrativo, la cara Alwyn unisce un contesto simil-mediorientale tanto in voga nel panorama fantasy una decina di anni fa con degli elementi tipici dei film western, come pistole, ferrovie, miniere e canyon; il tutto viene racchiuso nel quadro del solito governo oppressivo che un manipolo di adolescenti dovrà debellare. In questo scenario veniamo affidati al POV di Amani Al'Hiza, una ragazza proveniente dall'Ultima Contea, dove abbondano soltanto povertà e proiettili; mentre porta avanti il suo piano per sfuggire ad un matrimonio impostole dalla famiglia, Amani incrocia la strada del ricercato Jin con il quale partirà alla volta della lontana Izman, capitale del sultanato Miraji.
Una premessa non troppo originale, ma con del potenziale; potenziale che l'autrice si prodiga per sprecare in ogni modo possibile. In realtà alcuni aspetti riusciti ci sono, seppur risibili e marginali; un esempio è dato dall'idea di far intraprendere un percorso di scoperta interiore alla protagonista, che passa dal coltivare vaghi progetti di libertà personale all'impegnarsi in modo serio per migliorare le condizioni di vita di tutti nel suo Paese. Per quanto bizzarra, ho trovato carina anche l'idea di accostare elementi tanto lontani per arricchire questo mondo fantastico, inoltre ho apprezzato il messaggio egualitario di fondo pur trovandolo eccessivamente didascalico e ripetitivo.
In definitiva, i pregi sono pochi e neppure troppo solidi, quindi passiamo ai tanti tasti dolenti. Partiamo con la narrazione, che ho trovato troppo rapida e caotica: si passa da una scena all'altra senza che i personaggi stessi abbiano avuto il tempo di assimilare gli avvenimenti; lo si vede molto bene nel momento in cui scoprono senza troppo stupore la distruzione di Dassama, ad esempio. La cara Alwyn arriva perfino a saltare a piè pari intere scene, che poi riassumele all'inizio del capitolo successivo; questo dovrebbe forse rendere più scorrevole la lettura, ma a me è sembrato solo una furbata per agevolare il percorso dei protagonisti e passare ai momenti che trovava più interessanti.
A dispetto dello spunto insolito, il world building fa acqua da tutte le parti, sia perché non viene mai chiarito il motivo di questo miscuglio culturale sia per la pesante presentazione, realizzata ricorrendo a lunghi spiegoni piazzati nei momenti meno opportuni. Ad esempio, all'inizio del romanzo la protagonista entra nel negozio dello zio e, dopo averci informato di averlo trovato vuoto, passa ad elencarci tutte le creature soprannaturali che potrebbero entrarci nella notte; una scelta a dir poco bislacca, dal momento che il locale è deserto e non vedremo nessuno di questi esseri fantastici nell'immediato futuro.
Passando ai personaggi, devo dire di aver trovato un eccessivo numero di comprimari, che in un volume dove la narrazione è tanto rapida a passare da un contesto all'altro finiscono inevitabilmente per essere caratterizzati in base a degli stereotipi; inoltre, mi sorge il dubbio che una buona parte di loro sia stata inserita come mero riempitivo e per questo non ricomparirà più. Ovviamente l'insopportabile protagonista non migliora la situazione: Amani è spavalda ed incosciente per il gusto di esserlo, inoltre dimostra una superficialità ed un egoismo non solo imbarazzanti -se consideriamo che l'autrice vorrebbe venderla come un'eroina intrepida- ma anche in contraddizione con le tragedie alle quali ha assistito.
D'altro canto in questo romanzo disgrazie e morti violente vengono superate con estrema leggerezza, perdendo così gran parte della propria carica emotiva. Una carica che non si riprende quando passiamo alla sottotrama romance, sviluppata in maniera eccessivamente veloce e forzata; si percepisce in modo chiaro la mano dell'autrice dietro il presunto innamoramento tra due personaggi con poco in comune e solo una manciata di interazioni degne di nota.
E come poteva l'edizione nostrana non peggiorare ulteriormente la situazione? sia con una traduzione poco attenta, sia con la mancanza di mappa e glossario. Avrei apprezzato anche delle note che chiarissero il significato delle tante parole in arabo; da lettrice, posso anche intuire che la sheema sia una sorta di copricapo, ma sarebbe stato molto più interessante leggerne una chiara descrizione, magari incorporata in modo omogeneo al testo. Va precisato che questo sforzo non è stato fatto neppure nell'edizione originale, e ciò aumenta la mia impresso secondo cui l'autrice avrebbe adattato una storia di stampo distopico al contesto mediorientale per motivi di marketing.
Voto effettivo: una stellina e mezza
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mercoledì 15 maggio 2024
"S.O.S. Amore" di Federica Bosco
S.O.S. Amore by Federica Bosco
My rating: 2 of 5 stars
"Mi fermo sulla porta, mi volto e chiedo: «Dottor Folli... posso darle del tu?»
Mi guarda e fa un grande sorriso.
«Per adesso se lo scordi»"
A UNOBRAVO NON PIACE QUESTO ELEMENTO
Ormai penso di poter accettare con serenità che il genere chick lit mi piaccia finché rimane nei limiti della verosimiglianza, mentre quando non solo li attraversa ma li demolisce completamente come nei libri della cara Federica la mia pazienza viene meno. Ergo, "S.O.S. Amore" non è il libro fatto per me, ma non solo: non lo consiglierei ad un gran numero di categorie umane, come chi soffre di attacchi di panico, le vittime di stalking, l'ordine degli avvocati e quello degli psicologi, le persone queer, ma anche le donne e gli uomini etero cis, per il semplice motivo che potreste sentivi più o meno offesi dal contenuto di questo esilarante romanzo.
La trama all'apparenza è non solo innocua, ma anche incoraggiante: la nostra protagonista nonché narratrice è la trentacinquenne milanese Chiara, che comincia una serie di sedute di psicoterapia per risolvere i suoi problemi relazionali, in particolare la sua palese dipendenza emotiva a causa della quale si trova circondata da persone irrispettose e pronte ad approfittarsi di lei. Nella sua continua ricerca di approvazione, Chiara inizia però a mentire al suo terapeuta e si ostina a non seguirne i consigli, peggiorando ulteriormente la sua vita personale.
Con un atteggiamento simile Chiara non poteva sperare di entrare nelle mie grazie, ma la situazione è ben peggiore! sia lei sia il resto dei personaggi sembrano dei laureati in geologia che al contempo sostengano con convinzione il terrapiattismo: in buona sostanza, tutti loro capiscono benissimo quale sia la cosa giusta da fare, ma per ragioni imperscrutabili non la fanno mai. Per questo motivo mi trovo costretta a bocciare un po' tutto il piattissimo e prevedibile cast; perfino il dottor Folli -il terapeuta dal twist più scontato di un bikini a dicembre- non si salva perché a dispetto dei consigli condivisibili dati alla protagonista il suo approccio è l'antitesi della professionalità. Sono arrivata a sperare che si rivelasse un truffatore in stile Striscia la notizia per poter dare una giustificazione al suo comportamento.
E se la protagonista è così ricca di patetismo e povera di interessi personali, come poteva la sua storia essere intrigante? In questa narrazione tutto avviene per puro caso, in base allo scazzo estemporaneo di uno dei personaggi oppure con il preciso intento di ricreare una scena pescata a caso da una qualunque commedia romantica. Inoltre l'autrice non si prende neppure la briga di rileggere quanto ha scritto prima, incappando così in più di una contraddizione. Trattandosi di un romance, mi aspettavo che almeno l'aspetto sentimentale fosse affrontato con cura, invece ci troviamo di fronte a relazioni nate dal nulla che -nel momento in cui rischiano di naufragare- vengono salvate dal semplice trascorrere del tempo: nel giro di un paio di settimane la parte offesa dimentica per magia ogni torto subito.
Lo stile di Bosco non pare aver subito migliorie e, nonostante io possa capire il desiderio di non prendesi troppo sul serio adottando un lessico semplice e diretto, la leggerezza non è un lasciapassare per i refusi. Mi riferisco in particolare ad un utilizzo arbitrario della punteggiatura e della consecutio temporum tali da farmi pensare seriamente che nessun editor abbia messo mano al romanzo prima di mandarlo in stampa. La superficialità della prosa e del contenuto che caratterizza l'ottanta per cento del testo cozza poi terribilmente con la svolta pseudo-seria delle ultime venti pagine; mi è sembrata fuori luogo come una ballerina in tutù ad un concerto rock.
Di positivo c'è la scorrevolezza del testo che, per merito soprattutto dei suoi lunghi e numerosi dialoghi, permette di sciropparsi in poco tempo una quantità abnorme di scempiaggini con un atteggiamento bulimico simile a quello del binge watching. Per questo ho deciso di essere leggermente più generosa nella valutazione, anche perché in confronto con "Cercasi amore disperatamente" per lo meno questo romanzo è onesto verso i suoi lettori e non promette una storia per poi fornire una completamente diversa.
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My rating: 2 of 5 stars
"Mi fermo sulla porta, mi volto e chiedo: «Dottor Folli... posso darle del tu?»
Mi guarda e fa un grande sorriso.
«Per adesso se lo scordi»"
A UNOBRAVO NON PIACE QUESTO ELEMENTO
Ormai penso di poter accettare con serenità che il genere chick lit mi piaccia finché rimane nei limiti della verosimiglianza, mentre quando non solo li attraversa ma li demolisce completamente come nei libri della cara Federica la mia pazienza viene meno. Ergo, "S.O.S. Amore" non è il libro fatto per me, ma non solo: non lo consiglierei ad un gran numero di categorie umane, come chi soffre di attacchi di panico, le vittime di stalking, l'ordine degli avvocati e quello degli psicologi, le persone queer, ma anche le donne e gli uomini etero cis, per il semplice motivo che potreste sentivi più o meno offesi dal contenuto di questo esilarante romanzo.
La trama all'apparenza è non solo innocua, ma anche incoraggiante: la nostra protagonista nonché narratrice è la trentacinquenne milanese Chiara, che comincia una serie di sedute di psicoterapia per risolvere i suoi problemi relazionali, in particolare la sua palese dipendenza emotiva a causa della quale si trova circondata da persone irrispettose e pronte ad approfittarsi di lei. Nella sua continua ricerca di approvazione, Chiara inizia però a mentire al suo terapeuta e si ostina a non seguirne i consigli, peggiorando ulteriormente la sua vita personale.
Con un atteggiamento simile Chiara non poteva sperare di entrare nelle mie grazie, ma la situazione è ben peggiore! sia lei sia il resto dei personaggi sembrano dei laureati in geologia che al contempo sostengano con convinzione il terrapiattismo: in buona sostanza, tutti loro capiscono benissimo quale sia la cosa giusta da fare, ma per ragioni imperscrutabili non la fanno mai. Per questo motivo mi trovo costretta a bocciare un po' tutto il piattissimo e prevedibile cast; perfino il dottor Folli -il terapeuta dal twist più scontato di un bikini a dicembre- non si salva perché a dispetto dei consigli condivisibili dati alla protagonista il suo approccio è l'antitesi della professionalità. Sono arrivata a sperare che si rivelasse un truffatore in stile Striscia la notizia per poter dare una giustificazione al suo comportamento.
E se la protagonista è così ricca di patetismo e povera di interessi personali, come poteva la sua storia essere intrigante? In questa narrazione tutto avviene per puro caso, in base allo scazzo estemporaneo di uno dei personaggi oppure con il preciso intento di ricreare una scena pescata a caso da una qualunque commedia romantica. Inoltre l'autrice non si prende neppure la briga di rileggere quanto ha scritto prima, incappando così in più di una contraddizione. Trattandosi di un romance, mi aspettavo che almeno l'aspetto sentimentale fosse affrontato con cura, invece ci troviamo di fronte a relazioni nate dal nulla che -nel momento in cui rischiano di naufragare- vengono salvate dal semplice trascorrere del tempo: nel giro di un paio di settimane la parte offesa dimentica per magia ogni torto subito.
Lo stile di Bosco non pare aver subito migliorie e, nonostante io possa capire il desiderio di non prendesi troppo sul serio adottando un lessico semplice e diretto, la leggerezza non è un lasciapassare per i refusi. Mi riferisco in particolare ad un utilizzo arbitrario della punteggiatura e della consecutio temporum tali da farmi pensare seriamente che nessun editor abbia messo mano al romanzo prima di mandarlo in stampa. La superficialità della prosa e del contenuto che caratterizza l'ottanta per cento del testo cozza poi terribilmente con la svolta pseudo-seria delle ultime venti pagine; mi è sembrata fuori luogo come una ballerina in tutù ad un concerto rock.
Di positivo c'è la scorrevolezza del testo che, per merito soprattutto dei suoi lunghi e numerosi dialoghi, permette di sciropparsi in poco tempo una quantità abnorme di scempiaggini con un atteggiamento bulimico simile a quello del binge watching. Per questo ho deciso di essere leggermente più generosa nella valutazione, anche perché in confronto con "Cercasi amore disperatamente" per lo meno questo romanzo è onesto verso i suoi lettori e non promette una storia per poi fornire una completamente diversa.
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venerdì 10 maggio 2024
"La ragazza con l'orecchino di perla" di Tracy Chevalier
La ragazza con l'orecchino di perla by Tracy Chevalier
My rating: 3 of 5 stars
"Gli oggetti più complicati da realizzare furono la brocca e la bacinella, che diventarono gialle, marron, verdi e blu ... erano cioè di tutti i colori meno che del loro vero color argento, eppure erano tali quali dovevano apparire, una brocca e una bacinella. Da quel momento non potei fare a meno di osservare tutte le cose"
IL PITTORE CHE NON DEVE ESSERE NOMINATO
Dopo l'esperienza di lettura non proprio elettrizzante de "La Vergine azzurra", il mio entusiasmo verso le storie di Chevalier si era parecchio raffreddato, nonostante io continui a considerare le sue sinossi molto promettenti sulla carta. Prima di accantonare del tutto la bibliografia della cara Tracy, ho deciso pertanto di dare un'occasione a quello che sono certa essere il suo romanzo più conosciuto -ossia "La ragazza con l'orecchino di perla"- di cui ho recuperato convenientemente una vecchia copia all'usato.
La narrazione ci trasporta nell'Olanda del XVII secolo, in particolare nella città di Delft, dove vive e lavora il noto pittore Johannes van der Meer (nel testo chiamato con la forma contratta Vermeer). Il volume copre principalmente il periodo che va dal 1664 al 1666, e specula sulla vita della modella scelta dall'artista per posare per la sua opera più famosa: Ragazza col turbante. La giovane in questione si chiama Griet e, a causa delle ristrettezze in cui vive la sua famiglia, viene assunta come domestica presso i Vermeer; in parte per la sua avvenenza, in parte per la propensione dimostrata per gli accostamenti cromatici, la ragazza viene ben presto notata sia dai residenti che dai visitatori della casa in Oude Lagendijck.
Trovatami di fronte ad una premessa simile, temevo davvero di essermi imbattuta in una storia incentrata sul discutibile amore tormentato tra un (molto!) padre di famiglia ed un'ingenua minorenne pronta a venerarlo come un dio sceso in terra. Per fortuna, Chevalier decide di non intraprendere del tutto quella strada; il problema è che per contro sceglie di non raccontare proprio nulla! e con questo non intendo dire che il testo sia privo di avvenimenti, ma sono tutti fiacchi ed inconsistenti. Questo è il principale motivo per cui temo proprio di non essere in sintonia con la prosa dell'autrice, dal momento che in un romanzo ricerco un intreccio almeno un po' solido, o per lo meno dei personaggi ricchi di carisma.
Nessuno dei caratteri immaginati dalla cara Tracy per questa narrazione mi ha invece trasmesso alcunché, a partire da Griet: una protagonista sprovvista di risolutezza, che trasforma ogni nonnulla in una difficoltà insormontabile e si cruccia in gran segreto per le sue pene, anziché affrontare con coraggio la situazione in cui si trova. La scelta di renderla la voce narrante non aiuta la sua causa, e anziché provare della compassione ho avvertito soltanto dei forti dubbi sulle reazioni degli altri personaggi: non saranno così esasperate, perfino assurde, perché mostrate attraverso il suo punto di vista?
Il resto del cast non è comunque molto più interessante, e la difficoltà nel capire cosa leghi Griet ad ognuno rende le loro caratterizzazioni solo più deboli in prospettiva. Dal momento che a libro finito ancora non vi saprei dire cosa provi la protagonista per il suo "amato", direi che il legame più significativo sia la comune passione per l'arte condivisa con Vermeer; da una mera prospettiva estetica, questo dettaglio è anche apprezzabile perché da vita a diverse metafore interessanti, ma se si considera cosa c'è alla base del rapporto e quali conseguenze abbia è inevitabile rimanere delusi.
In realtà l'intera storia è costellata da immagini belle ed evocative che però nel concreto significano poco, come l'inspiegabile fobia di Griet per il sangue animale o la sua insistenza nel voler accontentare Vermeer a discapito di tutto, in virtù di una mera fascinazione per i suoi quadri. Pur ricercando delle narrazioni meno oniriche, ritengo però giusto dare credito allo stile di Chevalier per la buona combinazione di ricercatezza lessicale e scorrevolezza coinvolgente. Altro grande pregio del volume è l'impegnativo lavoro di ricerca svolto per rendere il contesto seicentesco in cui si muovono i personaggi non solo credibile, ma anche coerente con gli avvenimenti nella vera vita di Vermeer e delle altre figure storiche coinvolte.
Qualcosa di positivo nel libro quindi c'è, e senza dubbio farà la gioia dei lettori che prediligono le sensazioni provate al contenuto riscontrato. Se poi a differenza della sottoscritta riuscite ad entrare in empatia con Griet, il gioco è fatto!
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My rating: 3 of 5 stars
"Gli oggetti più complicati da realizzare furono la brocca e la bacinella, che diventarono gialle, marron, verdi e blu ... erano cioè di tutti i colori meno che del loro vero color argento, eppure erano tali quali dovevano apparire, una brocca e una bacinella. Da quel momento non potei fare a meno di osservare tutte le cose"
IL PITTORE CHE NON DEVE ESSERE NOMINATO
Dopo l'esperienza di lettura non proprio elettrizzante de "La Vergine azzurra", il mio entusiasmo verso le storie di Chevalier si era parecchio raffreddato, nonostante io continui a considerare le sue sinossi molto promettenti sulla carta. Prima di accantonare del tutto la bibliografia della cara Tracy, ho deciso pertanto di dare un'occasione a quello che sono certa essere il suo romanzo più conosciuto -ossia "La ragazza con l'orecchino di perla"- di cui ho recuperato convenientemente una vecchia copia all'usato.
La narrazione ci trasporta nell'Olanda del XVII secolo, in particolare nella città di Delft, dove vive e lavora il noto pittore Johannes van der Meer (nel testo chiamato con la forma contratta Vermeer). Il volume copre principalmente il periodo che va dal 1664 al 1666, e specula sulla vita della modella scelta dall'artista per posare per la sua opera più famosa: Ragazza col turbante. La giovane in questione si chiama Griet e, a causa delle ristrettezze in cui vive la sua famiglia, viene assunta come domestica presso i Vermeer; in parte per la sua avvenenza, in parte per la propensione dimostrata per gli accostamenti cromatici, la ragazza viene ben presto notata sia dai residenti che dai visitatori della casa in Oude Lagendijck.
Trovatami di fronte ad una premessa simile, temevo davvero di essermi imbattuta in una storia incentrata sul discutibile amore tormentato tra un (molto!) padre di famiglia ed un'ingenua minorenne pronta a venerarlo come un dio sceso in terra. Per fortuna, Chevalier decide di non intraprendere del tutto quella strada; il problema è che per contro sceglie di non raccontare proprio nulla! e con questo non intendo dire che il testo sia privo di avvenimenti, ma sono tutti fiacchi ed inconsistenti. Questo è il principale motivo per cui temo proprio di non essere in sintonia con la prosa dell'autrice, dal momento che in un romanzo ricerco un intreccio almeno un po' solido, o per lo meno dei personaggi ricchi di carisma.
Nessuno dei caratteri immaginati dalla cara Tracy per questa narrazione mi ha invece trasmesso alcunché, a partire da Griet: una protagonista sprovvista di risolutezza, che trasforma ogni nonnulla in una difficoltà insormontabile e si cruccia in gran segreto per le sue pene, anziché affrontare con coraggio la situazione in cui si trova. La scelta di renderla la voce narrante non aiuta la sua causa, e anziché provare della compassione ho avvertito soltanto dei forti dubbi sulle reazioni degli altri personaggi: non saranno così esasperate, perfino assurde, perché mostrate attraverso il suo punto di vista?
Il resto del cast non è comunque molto più interessante, e la difficoltà nel capire cosa leghi Griet ad ognuno rende le loro caratterizzazioni solo più deboli in prospettiva. Dal momento che a libro finito ancora non vi saprei dire cosa provi la protagonista per il suo "amato", direi che il legame più significativo sia la comune passione per l'arte condivisa con Vermeer; da una mera prospettiva estetica, questo dettaglio è anche apprezzabile perché da vita a diverse metafore interessanti, ma se si considera cosa c'è alla base del rapporto e quali conseguenze abbia è inevitabile rimanere delusi.
In realtà l'intera storia è costellata da immagini belle ed evocative che però nel concreto significano poco, come l'inspiegabile fobia di Griet per il sangue animale o la sua insistenza nel voler accontentare Vermeer a discapito di tutto, in virtù di una mera fascinazione per i suoi quadri. Pur ricercando delle narrazioni meno oniriche, ritengo però giusto dare credito allo stile di Chevalier per la buona combinazione di ricercatezza lessicale e scorrevolezza coinvolgente. Altro grande pregio del volume è l'impegnativo lavoro di ricerca svolto per rendere il contesto seicentesco in cui si muovono i personaggi non solo credibile, ma anche coerente con gli avvenimenti nella vera vita di Vermeer e delle altre figure storiche coinvolte.
Qualcosa di positivo nel libro quindi c'è, e senza dubbio farà la gioia dei lettori che prediligono le sensazioni provate al contenuto riscontrato. Se poi a differenza della sottoscritta riuscite ad entrare in empatia con Griet, il gioco è fatto!
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martedì 7 maggio 2024
"La corona di fuoco" di Sarah J. Maas
La Corona di Fuoco by Sarah J. Maas
My rating: 3 of 5 stars
"Celaena scatenò la magia sulla barriera, con un'esplosione che scosse gli alberi e fece tremare la terra. Lanciò il suo potere verso un muro invisibile, pregando quelle pietre antiche di accoglierlo, di usarlo ... si lasciò ardere"
HOW TO CUSTOMIZE YOUR DRAGON
Dopo aver trovato risposta a diverse domande ed essermi fatta sorgere altrettanti interrogativi nuovi di zecca con le novelle prequel, ritorno al presente del mondo creato da Maas in Throne of Glass con il terzo romanzo dal discutibile titolo italiano "La corona di fuoco", per fortuna corretto nella più recente edizione. Un ritorno caratterizzato dalla comparsa di un gran numero di nuovi personaggi, che trasformano la lettura in una sorta di zapping cartaceo.
Partiamo quindi dalla città di Rifthold, dove si trovano il principe Dorian, la guaritrice Sorscha, il capitano delle guardie Chaol ed il generale Aedion Ashryver, impegnati rispettivamente a tenere sotto controllo dei poteri in stile Frozen, fare gli occhi a cuoricino all'erede al trono, indagare sulla scomparsa della magia dall'Erilea ed organizzare feste farlocche. Dopo la conclusione de "La corona di mezzanotte", Celaena si è invece trasferita nel continente di Wendlyn -dove incrocia la strada del guerriero fatato Rowan Biancospino-, teoricamente la sua missione sarebbe eliminare la famiglia reale nemica del re di Adarlan, ma nella pratica è determinata ad incontrare la regina dei Fae Maeve ed ottenere da lei informazioni da utilizzare proprio contro il sovrano. Il quarto POV inedito è quello della strega Manon Becconero, per decenni cacciatrice di Crochan ed ora apprendista cavallerizza di draghi, come le sue simili Denti di Ferro.
Come potrete ben immaginare, nuove prospettive e nuove ambientazioni portano ad un ulteriore ampliamento del world building, che arriva a comprende luoghi di due diversi continenti, nonché inedite tipologie di creature magiche. Il solo neo in questo senso è rappresentato dalle informazioni fornite sui Fae -prima soltanto menzionati e qui finalmente presenti in carne ed ossa-, che vengono descritti con tratti quasi animaleschi soprattutto quando si parla dei maschi della specie: il lettore deve di conseguenza assistere con rassegnazione a comportamenti violenti ed abusanti solo perché è parte della loro natura. Dopo tante recensioni, potrete ben immaginare come la sottoscritta abbia faticato nel tollerarli.
Ritornando sui punti di forza, abbiamo poi un interessante (e direi anche doveroso) approfondimento sull'elaborazione del lutto necessaria a Celaena dopo la conclusione del secondo capitolo; sarà che questa Celaena è nettamente superiore a quella delle novelle, ma ho apprezzato il suo personaggio molto più del solito. Anche nell'evoluzione di Chaol penso siano stati fatti dei decisi passi in avanti, mentre non sono troppo convinta del ruolo ricoperto in questo volume da Dorian: ho apprezzato i suoi confronti con l'amico, ma l'intera parentesi romance è raffazzonata e tende a mostrarlo ancora una volta come un grande egoista.
Per quanto riguarda i nuovi personaggi POV provo sentimenti altalenanti, sia perché non ho apprezzato troppo il modo in cui la cara Sarah li ha introdotti -tanto frettoloso da farmi pensare di aver perso qualche scena di collegamento tra "La corona di mezzanotte" e questo libro-, sia per i ruoli ben diversi dei quattro caratteri, che mi hanno portato ad esprimere una preferenza tanto netta quanto inaspettata verso Aedion. Manon sembra promettente ma rimane troppo scollegata dagli altri, Rowan potrebbe piacermi non fosse per la già citata natura Fae, mentre Sorscha è risultata per me davvero dimenticabile.
A prescindere dalle preferenze personali, si tratta di un numero considerevole di POV, che rendono purtroppo la narrazione dispersiva, cosicché non è sempre chiaro quale sia la trama principale. L'intreccio non viene aiutato neppure dai sempre meno sensati piani dell'antagonista e dall'indesiderabile ritorno di tropes cari all'autrice (come il torneo senza capo né coda ed il mostro della settimana da scovare e battere). A coronare il tutto troviamo la solita traduzione approssimativa, che dà vita a frasi incomprensibili specie nei dialoghi dove spesso non si riesce a cogliere il nesso in un semplice botta e risposta.
Voto effettivo: tre stelline e mezza
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My rating: 3 of 5 stars
"Celaena scatenò la magia sulla barriera, con un'esplosione che scosse gli alberi e fece tremare la terra. Lanciò il suo potere verso un muro invisibile, pregando quelle pietre antiche di accoglierlo, di usarlo ... si lasciò ardere"
HOW TO CUSTOMIZE YOUR DRAGON
Dopo aver trovato risposta a diverse domande ed essermi fatta sorgere altrettanti interrogativi nuovi di zecca con le novelle prequel, ritorno al presente del mondo creato da Maas in Throne of Glass con il terzo romanzo dal discutibile titolo italiano "La corona di fuoco", per fortuna corretto nella più recente edizione. Un ritorno caratterizzato dalla comparsa di un gran numero di nuovi personaggi, che trasformano la lettura in una sorta di zapping cartaceo.
Partiamo quindi dalla città di Rifthold, dove si trovano il principe Dorian, la guaritrice Sorscha, il capitano delle guardie Chaol ed il generale Aedion Ashryver, impegnati rispettivamente a tenere sotto controllo dei poteri in stile Frozen, fare gli occhi a cuoricino all'erede al trono, indagare sulla scomparsa della magia dall'Erilea ed organizzare feste farlocche. Dopo la conclusione de "La corona di mezzanotte", Celaena si è invece trasferita nel continente di Wendlyn -dove incrocia la strada del guerriero fatato Rowan Biancospino-, teoricamente la sua missione sarebbe eliminare la famiglia reale nemica del re di Adarlan, ma nella pratica è determinata ad incontrare la regina dei Fae Maeve ed ottenere da lei informazioni da utilizzare proprio contro il sovrano. Il quarto POV inedito è quello della strega Manon Becconero, per decenni cacciatrice di Crochan ed ora apprendista cavallerizza di draghi, come le sue simili Denti di Ferro.
Come potrete ben immaginare, nuove prospettive e nuove ambientazioni portano ad un ulteriore ampliamento del world building, che arriva a comprende luoghi di due diversi continenti, nonché inedite tipologie di creature magiche. Il solo neo in questo senso è rappresentato dalle informazioni fornite sui Fae -prima soltanto menzionati e qui finalmente presenti in carne ed ossa-, che vengono descritti con tratti quasi animaleschi soprattutto quando si parla dei maschi della specie: il lettore deve di conseguenza assistere con rassegnazione a comportamenti violenti ed abusanti solo perché è parte della loro natura. Dopo tante recensioni, potrete ben immaginare come la sottoscritta abbia faticato nel tollerarli.
Ritornando sui punti di forza, abbiamo poi un interessante (e direi anche doveroso) approfondimento sull'elaborazione del lutto necessaria a Celaena dopo la conclusione del secondo capitolo; sarà che questa Celaena è nettamente superiore a quella delle novelle, ma ho apprezzato il suo personaggio molto più del solito. Anche nell'evoluzione di Chaol penso siano stati fatti dei decisi passi in avanti, mentre non sono troppo convinta del ruolo ricoperto in questo volume da Dorian: ho apprezzato i suoi confronti con l'amico, ma l'intera parentesi romance è raffazzonata e tende a mostrarlo ancora una volta come un grande egoista.
Per quanto riguarda i nuovi personaggi POV provo sentimenti altalenanti, sia perché non ho apprezzato troppo il modo in cui la cara Sarah li ha introdotti -tanto frettoloso da farmi pensare di aver perso qualche scena di collegamento tra "La corona di mezzanotte" e questo libro-, sia per i ruoli ben diversi dei quattro caratteri, che mi hanno portato ad esprimere una preferenza tanto netta quanto inaspettata verso Aedion. Manon sembra promettente ma rimane troppo scollegata dagli altri, Rowan potrebbe piacermi non fosse per la già citata natura Fae, mentre Sorscha è risultata per me davvero dimenticabile.
A prescindere dalle preferenze personali, si tratta di un numero considerevole di POV, che rendono purtroppo la narrazione dispersiva, cosicché non è sempre chiaro quale sia la trama principale. L'intreccio non viene aiutato neppure dai sempre meno sensati piani dell'antagonista e dall'indesiderabile ritorno di tropes cari all'autrice (come il torneo senza capo né coda ed il mostro della settimana da scovare e battere). A coronare il tutto troviamo la solita traduzione approssimativa, che dà vita a frasi incomprensibili specie nei dialoghi dove spesso non si riesce a cogliere il nesso in un semplice botta e risposta.
Voto effettivo: tre stelline e mezza
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venerdì 3 maggio 2024
"Mio marito" di Maud Ventura
Mio marito by Maud Ventura
My rating: 4 of 5 stars
"In questo momento ne sono intimamente convinta: è finita. Nella nostra coppia non c'è più nessun amore. Dopo quindici anni di vita comune, credo di meritarmi di meglio che essere paragonata a una volgare clementina. Mio marito sta per lasciarmi"
PORTARE I FILM MENTALI AD UN LIVELLO SUPERIORE
Ogni anno Feltrinelli propone una selezione di best seller da acquistare in coppia a poco prezzo e ogni anno io cado puntualmente nella loro trap... offerta. Questa volta avevo un solo obiettivo chiaro: recuperare il seguito de "Il Club dei delitti dei giovedì" di Osman, che ho molto apprezzato alcuni mesi fa; il dubbio era quindi a quale titolo l'avrei abbinato. Dopo un'analisi minuziosa di copertine, sinossi ed estratti vari, la scelta è ricaduta su "Mio marito", esordio di Ventura dal taglio stilistico decisamente originale.
La narrazione è infatti affidata ad una donna di cui non viene rivelato il nome, ma sappiamo per certo che è sulla quarantina, francese, bionda tinta, docente di inglese in un liceo, traduttrice part-time, appassionata di shopping e madre (discutibile) di due bambini. Tutti questi sono però dettagli di secondaria importanza, perché lei si identifica innanzitutto nel ruolo di moglie, e attraverso il suo punto di vista ci racconta una settimana della sua vita quotidiana e della sua costante ossessione per il marito, parimenti sprovvisto di nome.
Se vi sembra una sinossi un po' scarna, avete avuto l'impressione giusta: questo romanzo pecca proprio di un intreccio in senso convenzionale, perché nonostante gli eventi seguano una loro comprensibile consequenzialità, manca un obiettivo da raggiungere o un punto da evidenziare dal momento che la protagonista non ha alcuno scopo a parte quello di salvaguardare il suo matrimonio, e la prospettiva distorta da cui guarda la realtà non cambia nel corso del volume. In questo senso ho percepito in parte la mancanza di una trama canonica, seppur la prosa non mi abbia mai dato tempo e modo di annoiarmi per questa ragione.
Un altro elemento che potrebbe far storcere il naso a parecchi lettori è la scarsa caratterizzazione dei comprimari, perché mentre della protagonista conosciamo passato, pensieri e motivazione, sui personaggi che le ruotano attorno non viene fornito alcun approfondimento. Questo difetto ha però ragion d'essere vista la prospettiva limitata del POV scelto, che dà poco credito alle affermazioni dei caratteri secondari, e di certo non si sofferma ad sviscerare i loro ragionamenti più di tanto.
Passando ad analizzare quelli che reputo i pregi del volume, al primo posto devo per forza indicare l'originalità della prosa e della voce narrante, proprio quella che in un primo momento sembra tanto sensibile e sensata, per poi rivelare tutte le contraddizioni e le insicurezze di una persona disturbata. Questo libro in pratica riassume tutto ciò che non apprezzo nel genere romance: mancanza di dialogo nella coppia, una lei continuamente in competizione con le altre donne ed un lui incapace di adeguarsi alle richieste altrui. Per fortuna l'opera prima di Ventura non è una storia d'amore, anzi rappresenta l'antitesi delle relazioni sentimentali (ma direi anche umane) sane.
L'inusuale protagonista non è il solo punto di forza del romanzo, che può vantare anche un'atmosfera capace d'ispirare angoscia in modo sottile ma sempre maggiore, diventando così una sorta di thriller psicologico anticonvenzionale, sulla scia delle storie di Yoshida Shūichi. Un altro grande merito della cara Maud è stato per me il finale, che riesce in poche pagine a dare una sua solidità ad una narrazione fino a quel momento frammentaria, oltre a stupire il lettore senza per questo dover ricorrere a colpi di scena campati per aria. Per chi vuole rimanere a bocca aperta, ma non sentirsi preso in giro dall'autore.
Voto effettivo: quattro stelline e mezza
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My rating: 4 of 5 stars
"In questo momento ne sono intimamente convinta: è finita. Nella nostra coppia non c'è più nessun amore. Dopo quindici anni di vita comune, credo di meritarmi di meglio che essere paragonata a una volgare clementina. Mio marito sta per lasciarmi"
PORTARE I FILM MENTALI AD UN LIVELLO SUPERIORE
Ogni anno Feltrinelli propone una selezione di best seller da acquistare in coppia a poco prezzo e ogni anno io cado puntualmente nella loro trap... offerta. Questa volta avevo un solo obiettivo chiaro: recuperare il seguito de "Il Club dei delitti dei giovedì" di Osman, che ho molto apprezzato alcuni mesi fa; il dubbio era quindi a quale titolo l'avrei abbinato. Dopo un'analisi minuziosa di copertine, sinossi ed estratti vari, la scelta è ricaduta su "Mio marito", esordio di Ventura dal taglio stilistico decisamente originale.
La narrazione è infatti affidata ad una donna di cui non viene rivelato il nome, ma sappiamo per certo che è sulla quarantina, francese, bionda tinta, docente di inglese in un liceo, traduttrice part-time, appassionata di shopping e madre (discutibile) di due bambini. Tutti questi sono però dettagli di secondaria importanza, perché lei si identifica innanzitutto nel ruolo di moglie, e attraverso il suo punto di vista ci racconta una settimana della sua vita quotidiana e della sua costante ossessione per il marito, parimenti sprovvisto di nome.
Se vi sembra una sinossi un po' scarna, avete avuto l'impressione giusta: questo romanzo pecca proprio di un intreccio in senso convenzionale, perché nonostante gli eventi seguano una loro comprensibile consequenzialità, manca un obiettivo da raggiungere o un punto da evidenziare dal momento che la protagonista non ha alcuno scopo a parte quello di salvaguardare il suo matrimonio, e la prospettiva distorta da cui guarda la realtà non cambia nel corso del volume. In questo senso ho percepito in parte la mancanza di una trama canonica, seppur la prosa non mi abbia mai dato tempo e modo di annoiarmi per questa ragione.
Un altro elemento che potrebbe far storcere il naso a parecchi lettori è la scarsa caratterizzazione dei comprimari, perché mentre della protagonista conosciamo passato, pensieri e motivazione, sui personaggi che le ruotano attorno non viene fornito alcun approfondimento. Questo difetto ha però ragion d'essere vista la prospettiva limitata del POV scelto, che dà poco credito alle affermazioni dei caratteri secondari, e di certo non si sofferma ad sviscerare i loro ragionamenti più di tanto.
Passando ad analizzare quelli che reputo i pregi del volume, al primo posto devo per forza indicare l'originalità della prosa e della voce narrante, proprio quella che in un primo momento sembra tanto sensibile e sensata, per poi rivelare tutte le contraddizioni e le insicurezze di una persona disturbata. Questo libro in pratica riassume tutto ciò che non apprezzo nel genere romance: mancanza di dialogo nella coppia, una lei continuamente in competizione con le altre donne ed un lui incapace di adeguarsi alle richieste altrui. Per fortuna l'opera prima di Ventura non è una storia d'amore, anzi rappresenta l'antitesi delle relazioni sentimentali (ma direi anche umane) sane.
L'inusuale protagonista non è il solo punto di forza del romanzo, che può vantare anche un'atmosfera capace d'ispirare angoscia in modo sottile ma sempre maggiore, diventando così una sorta di thriller psicologico anticonvenzionale, sulla scia delle storie di Yoshida Shūichi. Un altro grande merito della cara Maud è stato per me il finale, che riesce in poche pagine a dare una sua solidità ad una narrazione fino a quel momento frammentaria, oltre a stupire il lettore senza per questo dover ricorrere a colpi di scena campati per aria. Per chi vuole rimanere a bocca aperta, ma non sentirsi preso in giro dall'autore.
Voto effettivo: quattro stelline e mezza
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