La donna che visse due volte by Boileau-Narcejac
My rating: 4 of 5 stars
"Madeleine non era malata, ma non era neanche del tutto normale. Le piacevano la vita, la folla, i posti movimentati, era allegra ... questo era il suo lato luminoso, solare. Ma c'era anche l'altro lato, quello notturno, misterioso"
MA VOGLIA DI VOLARE (O STRANGOLARE)
Dopo aver completato miracolosamente un'epopea di puntini lunga quasi settecento pagine, non capisco perché il karma debba infierire sulla sottoscritta con un altro libro composto da una quantità indegna di frasi lasciate in sospeso. Per lo meno il celebre titolo del duo composto da Pierre Boileau e Thomas Narcejac è parecchio più compatto rispetto a "La torre dell'alba"! Questo non mi ha impedito di alzare più volte gli occhi al cielo durante la lettura de "La donna che visse due volte", un romanzo con tante qualità, una buona parte delle quali non rientra purtroppo nei miei gusti.
La narrazione ci trasporta inizialmente nella Parigi della strana guerra, con la popolazione francese che affronta in modi molto diversi la minaccia dell'invasione nazista: c'è chi lascia la città in preda al panico e chi continua ad ignorare gli allarmi notturni. È in questo momento storico che si ritrovano due vecchi amici, ovvero l'imprenditore di successo Paul Gévigne e l'ex poliziotto diventato avvocato Roger Flavières; il primo incarica il secondo di avviare un'indagine nei confronti di sua moglie Madeleine, che da qualche tempo si comporta in modo bizzarro. Flavières inizia così a pedinare la donna, scoprendo il suo inspiegabile interesse nei confronti della bisnonna Pauline Lagerlac, e diventandone a sua volta ossessionato.
L'intreccio mystery si può già indovinare da queste poche righe, ma nei fatti lo sviluppo della trama è ben più ampio ed intricato, mescolando con attenzione tocchi di noir, thriller ed horror fino ad arrivare alla rivelazione finale. Una rivelazione che ammetto sia riuscita a stupirmi, nonostante i suoi settant'anni! un po' per merito della poca affidabilità del POV scelto, un po' perché non ho mai avuto l'occasione di vedere l'adattamento diretto da Hitchcock. La narrazione è stata inoltre supportata in maniera efficacie dai suoi protagonisti, a dispetto dei loro caratteri poco definiti.
Tra i pregi del volume posso far poi rientrare l'ambientazione, sia a livello storico (perché i periodi scelti riflettono bene lo stato d'animo dei personaggi in scena) sia nelle descrizioni dei singoli ambienti o paesaggi: il duo Boileau-Narcejac dimostra un vero talento nel delineare delle immagini evocative nella loro semplicità, nonché capaci di adattarsi bene all'atmosfera greve che permea l'intero romanzo. Il senso di disagio provato dal protagonista si estende infatti al lettore, che allo stesso modo non è più certo di quanto ci sia di reale nelle vicende descritte, né quale genere di sentimenti gli trasmetta il comportamento di Flavières.
Per mia preferenza, questo è stato invece un punto non propriamente a favore: la prospettiva del protagonista mi è risultata davvero spiacevole da seguire; inoltre non sono una grande fan delle narrazioni in cui la chiarezza si fa desiderare. E se è vero che l'epilogo fornisce una risposta al mistero in generale, alcuni aspetti specifici continuano a sembrarmi forzati ed approssimativi. Un difetto un po' più soggettivo è individuabile verso il finale, dove sono presenti diversi confronti molto importanti, per i quali non viene fornita poi una conclusione soddisfacente: ho avuto quasi la sensazione di essermi persa delle scene, tanto da dover tornare indietro a controllare e rileggere! In fondo, chi mai passerebbe dal rifiutare le avances di uno sconosciuto al frequentarlo stabilmente da una pagina all'altra?
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giovedì 31 ottobre 2024
venerdì 25 ottobre 2024
"La torre dell'alba" di Sarah J. Maas
La torre dell'alba by Sarah J. Maas
My rating: 3 of 5 stars
"La costruzione ... era enorme, sembrava quasi un castello, ma tondeggiante, smussato. Vari edifici la circondavano da tutti i lati, collegati tra loro ai piani più bassi. Il tutto era circondato da mura bianche e impenetrabili, mentre i cancelli di ferro, che componevano l'immagine di una civetta con le ali spiegate, erano aperti"
SGUARDI SEMPRE PIÙ CIARLIERI
Voglio mettere subito in chiaro che, tra tutti i volumi della serie Throne of Glass, "La torre dell'alba" è quello per cui forse provavo meno interesse. In realtà, una volta superato lo scoglio de "Il trono di ghiaccio" e preso confidenza con la prosa di Maas, immaginavo una lettura tutta in discesa per i seguiti; soltanto dopo ho scoperto che mi aspettava un mattone di oltre 600 pagine interamente dedicato alla quest secondaria di Chaol nel Continente Meridionale. Ed in effetti la lettura è stata sfiancante come temevo, seppur la colpa non sia tutta della cara Sarah: sono io quella che ogni due frasi sente la necessità di fermarsi per alzare gli occhi al cielo esasperata.
Come accennato, la narrazione si sposta interamente nel cosiddetto Continente Meridionale, su gran parte del quale governa una sorta di imperatore chiamato khagan, con il quale Chaol e Nesryn sperano di potersi alleare per contrastare l'avanzata di Erawan. Al contempo, l'ex capitano delle guardie di Adarlan chiede l'aiuto dei magici guaritori di Torre Cesme, e questo riporta in scena il personaggio di Yrene Towers, già al centro di una delle novelle prequel. Ben presto i protagonisti si ritrovano coinvolti nelle trame di corte, ed iniziano anche a sospettare di essere stati preceduti dai demoni Valg nella capitale Antica.
Si ritorna quindi al tono dei primi libri, e questo non mi entusiasmava granché: la cara Sarah non si è mai dimostrata troppo portata per trattare intrighi politici e misteri da risolvere, e con il passare del tempo non ho visto migliorie su questo fronte. Inoltre un po' mi dispiaceva che le battaglie e la magia venissero lasciate da parte, ma non mi rendevo conto che il problema sarebbe stato un altro, ovvero la totale assenza di tensione narrativa. Chaol e Nesryn sembrano sapere a loro volta che alla fine il khagan passerà dalla parte dei buoni, e quindi non provano neppure a convincerlo della minaccia rappresentata dai Valg. Da lettori, è logico immaginare che i protagonisti porteranno a casa la vittoria finale, ma raramente ho letto storie in cui suddetti personaggi si impegnassero così poco per un obiettivo che la quarta di copertina stessa definisce «l'ultima speranza per l'Erilea».
Si arriva al punto in cui i caratteri stessi affermano di non avere le idee chiare su cosa stanno facendo in un dato momento, e sperano soltanto ci possano essere dei risvolti positivi. Risvolti che logicamente non mancano, ma ciò rende la struttura della serie stessa ancora più debole; in questo senso le numerose retcon non aiutano! danno anzi l'idea di una storia sistemata in corso d'opera. La narrazione è particolarmente fiacca nei primi capitoli, pieni di name dropping e di spiegoni talmente prolissi e noiosi da rendere quasi impossibile per il lettore seguire il filo dei dialoghi; a quanto parte anche per l'autrice stessa si è trovata a sbadigliare sonoramente, viste le battute insensate e contraddittorie che fa pronunciare ad alcuni personaggi.
Purtroppo lo stile non sopperisce alle mancanze del contenuto. In questo romanzo, i segni distintivi della prosa di Maas mi hanno fatto raggiungere vette di frustrazione sulla quali mai mi sarei avventurata di mia sponte; sono arrivata perfino a chiedermi se per avere l'altra metà delle battute dovessi acquistare un volume a parte! Le frasi lasciate in sospeso non si contano, così come le ridondanti descrizioni dei bellissimi protagonisti e gli inutili dettagli sull'abbigliamento, gli arredi ed il cibo. Presumo che obiettivo fosse creare un'atmosfera distinta rispetto agli altri luoghi della saga, ma si tratta di tentativi davvero fiacchi quando poi si scivola ogni due per tre in locuzioni moderne e stonate.
Una mia lamentela personale riguarda invece il POV di Nesryn, che ho trovato a dir poco soporifero e spesso fuori luogo. Di lei non sappiamo quasi nulla quando inizia il volume, e ben poco arrivati alla fine: essere legati alla propria famiglia e voler combattere contro i Valg a colpi di freccie non sono dei tratti così intriganti. Per lo stesso motivo reputo poco convincente la sua nuova romance (viene chiaramente detto che è stato un instalove!) e tutti i comportamenti pretestuosi che spingono lei e Chaol ad allontanarsi e cercare nuovi interessi amorosi. Non sia mai che un protagonista maasiano rimanga senza partner per più di qualche pagina!
Pretesto a parte, ho apprezzato il conflitto alla base della romance principale, perché ha delle solide basi e non viene portato avanti più del necessario. In realtà, se dovessi valutare questa storia unicamente come un romanzo rosa, potrebbe guadagnare anche una stellina in più perché questo aspetto è trattato con parecchia cura dall'autrice... peccato per la pretesa di imbastirci attorno un'avventura fantasy! Sono tiepidamente convinta anche dalla rappresentazione della disabilità: si degenera prevedibilmente nell'abilismo, ma sul finale la cara Sarah è riuscita fortunatamente a correggere almeno un po' il tiro su questo aspetto.
L'altro pregio più rilevante del volume è rappresentato dalle tematiche attuali -come discriminazione e pregiudizi, superamento di un trauma fisico e psicologico, violenza di genere e femminismo-, che l'autrice tratta adattandole come può al contesto magico. Anche in questo caso, non penso di aver riscontrato dei risultati entusiasmanti (la battuta sulla madre che solleva la carrozza per salvare il figlio, in particolare, mi ha stesa) perché è difficile coniugare ambientazione fantasy e situazioni contemporanee, però l'intento è indubbiamente positivo e fornisce una valida chiusura agli archi narrativi dei personaggi di Chaol ed Yrene.
Voto effettivo: tre stelline e mezza
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My rating: 3 of 5 stars
"La costruzione ... era enorme, sembrava quasi un castello, ma tondeggiante, smussato. Vari edifici la circondavano da tutti i lati, collegati tra loro ai piani più bassi. Il tutto era circondato da mura bianche e impenetrabili, mentre i cancelli di ferro, che componevano l'immagine di una civetta con le ali spiegate, erano aperti"
SGUARDI SEMPRE PIÙ CIARLIERI
Voglio mettere subito in chiaro che, tra tutti i volumi della serie Throne of Glass, "La torre dell'alba" è quello per cui forse provavo meno interesse. In realtà, una volta superato lo scoglio de "Il trono di ghiaccio" e preso confidenza con la prosa di Maas, immaginavo una lettura tutta in discesa per i seguiti; soltanto dopo ho scoperto che mi aspettava un mattone di oltre 600 pagine interamente dedicato alla quest secondaria di Chaol nel Continente Meridionale. Ed in effetti la lettura è stata sfiancante come temevo, seppur la colpa non sia tutta della cara Sarah: sono io quella che ogni due frasi sente la necessità di fermarsi per alzare gli occhi al cielo esasperata.
Come accennato, la narrazione si sposta interamente nel cosiddetto Continente Meridionale, su gran parte del quale governa una sorta di imperatore chiamato khagan, con il quale Chaol e Nesryn sperano di potersi alleare per contrastare l'avanzata di Erawan. Al contempo, l'ex capitano delle guardie di Adarlan chiede l'aiuto dei magici guaritori di Torre Cesme, e questo riporta in scena il personaggio di Yrene Towers, già al centro di una delle novelle prequel. Ben presto i protagonisti si ritrovano coinvolti nelle trame di corte, ed iniziano anche a sospettare di essere stati preceduti dai demoni Valg nella capitale Antica.
Si ritorna quindi al tono dei primi libri, e questo non mi entusiasmava granché: la cara Sarah non si è mai dimostrata troppo portata per trattare intrighi politici e misteri da risolvere, e con il passare del tempo non ho visto migliorie su questo fronte. Inoltre un po' mi dispiaceva che le battaglie e la magia venissero lasciate da parte, ma non mi rendevo conto che il problema sarebbe stato un altro, ovvero la totale assenza di tensione narrativa. Chaol e Nesryn sembrano sapere a loro volta che alla fine il khagan passerà dalla parte dei buoni, e quindi non provano neppure a convincerlo della minaccia rappresentata dai Valg. Da lettori, è logico immaginare che i protagonisti porteranno a casa la vittoria finale, ma raramente ho letto storie in cui suddetti personaggi si impegnassero così poco per un obiettivo che la quarta di copertina stessa definisce «l'ultima speranza per l'Erilea».
Si arriva al punto in cui i caratteri stessi affermano di non avere le idee chiare su cosa stanno facendo in un dato momento, e sperano soltanto ci possano essere dei risvolti positivi. Risvolti che logicamente non mancano, ma ciò rende la struttura della serie stessa ancora più debole; in questo senso le numerose retcon non aiutano! danno anzi l'idea di una storia sistemata in corso d'opera. La narrazione è particolarmente fiacca nei primi capitoli, pieni di name dropping e di spiegoni talmente prolissi e noiosi da rendere quasi impossibile per il lettore seguire il filo dei dialoghi; a quanto parte anche per l'autrice stessa si è trovata a sbadigliare sonoramente, viste le battute insensate e contraddittorie che fa pronunciare ad alcuni personaggi.
Purtroppo lo stile non sopperisce alle mancanze del contenuto. In questo romanzo, i segni distintivi della prosa di Maas mi hanno fatto raggiungere vette di frustrazione sulla quali mai mi sarei avventurata di mia sponte; sono arrivata perfino a chiedermi se per avere l'altra metà delle battute dovessi acquistare un volume a parte! Le frasi lasciate in sospeso non si contano, così come le ridondanti descrizioni dei bellissimi protagonisti e gli inutili dettagli sull'abbigliamento, gli arredi ed il cibo. Presumo che obiettivo fosse creare un'atmosfera distinta rispetto agli altri luoghi della saga, ma si tratta di tentativi davvero fiacchi quando poi si scivola ogni due per tre in locuzioni moderne e stonate.
Una mia lamentela personale riguarda invece il POV di Nesryn, che ho trovato a dir poco soporifero e spesso fuori luogo. Di lei non sappiamo quasi nulla quando inizia il volume, e ben poco arrivati alla fine: essere legati alla propria famiglia e voler combattere contro i Valg a colpi di freccie non sono dei tratti così intriganti. Per lo stesso motivo reputo poco convincente la sua nuova romance (viene chiaramente detto che è stato un instalove!) e tutti i comportamenti pretestuosi che spingono lei e Chaol ad allontanarsi e cercare nuovi interessi amorosi. Non sia mai che un protagonista maasiano rimanga senza partner per più di qualche pagina!
Pretesto a parte, ho apprezzato il conflitto alla base della romance principale, perché ha delle solide basi e non viene portato avanti più del necessario. In realtà, se dovessi valutare questa storia unicamente come un romanzo rosa, potrebbe guadagnare anche una stellina in più perché questo aspetto è trattato con parecchia cura dall'autrice... peccato per la pretesa di imbastirci attorno un'avventura fantasy! Sono tiepidamente convinta anche dalla rappresentazione della disabilità: si degenera prevedibilmente nell'abilismo, ma sul finale la cara Sarah è riuscita fortunatamente a correggere almeno un po' il tiro su questo aspetto.
L'altro pregio più rilevante del volume è rappresentato dalle tematiche attuali -come discriminazione e pregiudizi, superamento di un trauma fisico e psicologico, violenza di genere e femminismo-, che l'autrice tratta adattandole come può al contesto magico. Anche in questo caso, non penso di aver riscontrato dei risultati entusiasmanti (la battuta sulla madre che solleva la carrozza per salvare il figlio, in particolare, mi ha stesa) perché è difficile coniugare ambientazione fantasy e situazioni contemporanee, però l'intento è indubbiamente positivo e fornisce una valida chiusura agli archi narrativi dei personaggi di Chaol ed Yrene.
Voto effettivo: tre stelline e mezza
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mercoledì 23 ottobre 2024
"Miss Marple al Bertram Hotel" di Agatha Christie
Miss Marple al Bertram Hotel by Agatha Christie
My rating: 4 of 5 stars
"Persone anziane, gente all'antica, di mezza età, tutti molto distinti ... Nessuna persona di cattivo gusto, nessuno fuori posto; la maggior parte era lì per godersi un pomeriggio inglese d'altri tempi. Poteva veramente esserci qualcosa che non andava in un luogo che serviva il tè del pomeriggio secondo le più antiche consuetudini?"
SORA IMPICCETTA AL BERTRAM HOTEL
Arrivata ormai alle ultime avventure della sempre affabile zia Jane, pensavo che Christie non sarebbe di certo riuscita a stupirmi con questo personaggio, specie in una storia all'apparenza tanto tradizionale come "Miss Marple al Bertram Hotel". Invece il decimo romanzo della pseudo-serie mette in scena una narrazione insolita per i canoni marpleiani, con un taglio decisamente più poliziesco e senza la struttura del murder mystery classico. Ciononostante, anche in quest'occasione, Miss Marple riesce a rendersi indispensabile per portare avanti le indagini: cosa farebbero a Scotland Yard, senza di lei?
Già dal titolo è chiaro che le storie dei personaggi -per quanto sembrino distanti tra loro- sono collegate dal Bertram Hotel, una struttura d'altri tempi sia per l'arredamento scelto sia per il tipo di clientela: tutto sembra essere cristallizzato all'epoca di Edoardo VII. Qui soggiorna Jane Marple, qualche tempo dopo le vicende narrate in "Miss Marple nei Caraibi", grazie alla generosità del nipote Raymond. Una coincidenza a dir poco fortuita, perché nell'albergo sembrano succedere eventi sospetti che portano perfino all'intervento delle forze dell'ordine, in particolare quando l'anziano canonico Pennyfather scompare nel nulla.
In realtà la narrazione poggia su molti altri spunti (furti diaboliki e ghiotte eredità), che nel corso della lettura possono anche lasciare interdetti perché non se ne coglie facilmente il nesso. Però il finale riesce come sempre a fornire una chiara risposta a tutti i quesiti disseminati nel testo, anche se forse con un paio di forzature che trovano giustificazione parziale nelle informazioni che mancano al lettore e nello spazio insufficiente assegnato allo sviluppo dei personaggi. In questo più che in altri romanzi christieani si sente infatti la mancanza di una caratterizzazione degna, specialmente per le figure di Lady Bess Segdwick e della giovane Elvira Blake, che avrebbero giovato di un maggiore approfondimento.
Del resto non ho grandi critiche da muovere a questo volume, in cui perfino l'edizione italiana non regala scivoloni degni di nota. Al massimo potrei evidenziare l'ennesimo caso di finale affrettato, che pur non lasciando misteri irrisolti, non si impegna eccessivamente per chiudere le sottotrame secondarie: una volta individuato il colpevole, la cara Agatha sembra avere sempre una gran fretta di scivere la parola fine, quindi non c'è tempo per conoscere nei dettagli la sorte del canonico Pennyfather o quali siano le prove scovate da Scotland Yard per incastrare la banda dietro le rapine spettacolari.
Questo non fa allontanare però la trama dalla categoria dei pregi, perché l'intreccio si conferma studiato molto bene nel suo insieme. È anzi estremamente soddisfacente vedere i diversi caratteri in gioco interagire tra loro per capire quali legami li uniscano, e come queste relazioni andranno ad influire sulla storia. I migliori confronti sono senza dubbio quelli tra Miss Marple e l'ispettore capo Fred "papà" Davy, sia quando si scambiano indizi sul mistero principale, sia quando discutono in senso più ampio sull'ineluttabilità del cambiamento o su come una medesima indole viene percepita in modi tanto diversi a seconda dell'epoca storica.
A sostenere questa lettura c'è poi l'ambientazione, quella londinese in generale (la scena nella nebbia raggiunge quasi delle note horror) e quella del Bertram in particolare. L'atmosfera vintage che trasmette la struttura è sottolineata fin dalle prime pagine e si rivela un elemento fondamentale tanto per fornire un contesto solido quanto per la risoluzione effettiva del giallo. Immaginare nei dettagli questo hotel, e la storia dietro ad esso, è a mio avviso una delle migliori idee che l'autrice abbia avuto nella sua produzione più matura.
Voto effettivo: quattro stelline e mezza
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My rating: 4 of 5 stars
"Persone anziane, gente all'antica, di mezza età, tutti molto distinti ... Nessuna persona di cattivo gusto, nessuno fuori posto; la maggior parte era lì per godersi un pomeriggio inglese d'altri tempi. Poteva veramente esserci qualcosa che non andava in un luogo che serviva il tè del pomeriggio secondo le più antiche consuetudini?"
SORA IMPICCETTA AL BERTRAM HOTEL
Arrivata ormai alle ultime avventure della sempre affabile zia Jane, pensavo che Christie non sarebbe di certo riuscita a stupirmi con questo personaggio, specie in una storia all'apparenza tanto tradizionale come "Miss Marple al Bertram Hotel". Invece il decimo romanzo della pseudo-serie mette in scena una narrazione insolita per i canoni marpleiani, con un taglio decisamente più poliziesco e senza la struttura del murder mystery classico. Ciononostante, anche in quest'occasione, Miss Marple riesce a rendersi indispensabile per portare avanti le indagini: cosa farebbero a Scotland Yard, senza di lei?
Già dal titolo è chiaro che le storie dei personaggi -per quanto sembrino distanti tra loro- sono collegate dal Bertram Hotel, una struttura d'altri tempi sia per l'arredamento scelto sia per il tipo di clientela: tutto sembra essere cristallizzato all'epoca di Edoardo VII. Qui soggiorna Jane Marple, qualche tempo dopo le vicende narrate in "Miss Marple nei Caraibi", grazie alla generosità del nipote Raymond. Una coincidenza a dir poco fortuita, perché nell'albergo sembrano succedere eventi sospetti che portano perfino all'intervento delle forze dell'ordine, in particolare quando l'anziano canonico Pennyfather scompare nel nulla.
In realtà la narrazione poggia su molti altri spunti (furti diaboliki e ghiotte eredità), che nel corso della lettura possono anche lasciare interdetti perché non se ne coglie facilmente il nesso. Però il finale riesce come sempre a fornire una chiara risposta a tutti i quesiti disseminati nel testo, anche se forse con un paio di forzature che trovano giustificazione parziale nelle informazioni che mancano al lettore e nello spazio insufficiente assegnato allo sviluppo dei personaggi. In questo più che in altri romanzi christieani si sente infatti la mancanza di una caratterizzazione degna, specialmente per le figure di Lady Bess Segdwick e della giovane Elvira Blake, che avrebbero giovato di un maggiore approfondimento.
Del resto non ho grandi critiche da muovere a questo volume, in cui perfino l'edizione italiana non regala scivoloni degni di nota. Al massimo potrei evidenziare l'ennesimo caso di finale affrettato, che pur non lasciando misteri irrisolti, non si impegna eccessivamente per chiudere le sottotrame secondarie: una volta individuato il colpevole, la cara Agatha sembra avere sempre una gran fretta di scivere la parola fine, quindi non c'è tempo per conoscere nei dettagli la sorte del canonico Pennyfather o quali siano le prove scovate da Scotland Yard per incastrare la banda dietro le rapine spettacolari.
Questo non fa allontanare però la trama dalla categoria dei pregi, perché l'intreccio si conferma studiato molto bene nel suo insieme. È anzi estremamente soddisfacente vedere i diversi caratteri in gioco interagire tra loro per capire quali legami li uniscano, e come queste relazioni andranno ad influire sulla storia. I migliori confronti sono senza dubbio quelli tra Miss Marple e l'ispettore capo Fred "papà" Davy, sia quando si scambiano indizi sul mistero principale, sia quando discutono in senso più ampio sull'ineluttabilità del cambiamento o su come una medesima indole viene percepita in modi tanto diversi a seconda dell'epoca storica.
A sostenere questa lettura c'è poi l'ambientazione, quella londinese in generale (la scena nella nebbia raggiunge quasi delle note horror) e quella del Bertram in particolare. L'atmosfera vintage che trasmette la struttura è sottolineata fin dalle prime pagine e si rivela un elemento fondamentale tanto per fornire un contesto solido quanto per la risoluzione effettiva del giallo. Immaginare nei dettagli questo hotel, e la storia dietro ad esso, è a mio avviso una delle migliori idee che l'autrice abbia avuto nella sua produzione più matura.
Voto effettivo: quattro stelline e mezza
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venerdì 18 ottobre 2024
"Demon Copperhead" di Barbara Kingsolver
Demon Copperhead by Barbara Kingsolver
My rating: 4 of 5 stars
"Era quella, la vita che mi aspettava? Infilarmi dove la gente non mi voleva? Una volta ero qualcuno e poi ero andato a male, come il latte ... Un pezzetto marcio della torta americana che tutti avrebbero voluto semplicemente far sparire"
I RETELLING NON (MI) HANNO ANCORA STANCATO
Quando tutti sembrano star leggendo un determinato romanzo, quello è proprio il momento in cui la sottoscritta decide di evitarlo. In seguito, le strade percorribili sono due: mi intestardisco nel non voler recuperare il libro in questione mai e poi mai (com'è capitato negli anni con i famosissimi "Eragon", "Il cacciatore di aquiloni" o "I sette mariti di Evelyn Hugo", solo per nominarne alcuni) oppure capitolo dopo aver lasciato scemare l'hype rimanendo quasi sempre delusa dal risultato. Entrambe le alternative non sono il massimo, quindi quando ho ricevuto in regalo una copia di "Demon Copperhead" per il mio ultimo compleanno ho preso la saggia decisione di leggerlo entro la fine di questo poco soddisfacente 2024 letterario.
Ispirandosi per il titolo e non solo al "David Copperfield" di Dickens, Kingsolver racconta la vita di Damon Fields, nato sul finire degli anni Ottanta nella Lee Country in Virginia, da una madre tossicodipendente ed un padre morto diversi mesi prima. Narrato dal protagonista stesso, il romanzo ripercorre la vita del cosiddetto Demon Copperhead, dalla difficile nascita alla troppo breve infanzia, fino ad un'età adulta raggiunta ben prima di aver compiuto diciott'anni. Nel mentre vediamo l'alternarsi di fortune e sciagure, con il desiderio di far parte di una famiglia senza vincoli o date di scadenza sempre sullo sfondo.
Un altro cardine dell'intreccio è la dipendenza da sostanze, analizzata dall'autrice nei giusti tempi e dando ai risvolti più tragici il peso che meritano. La tematica della tossicodipendenza si collega bene agli altri argomenti toccati nel testo -come l'inadeguatezza dei servizi sanitario ed assistenziale, la dispersione scolastica, le disparità sociali- e riesce al tempo stesso a farsi allegoria di quella necessità trascendentale di affetto che caratterizza l'intera esistenza di Demon. Un bisogno che lo porta a compiere gesti tanto eclatanti quanto autodistruttivi, incapace di vedere delle vere alternative al suo declino.
Il tutto è convogliato tramite la prosa curata ed incalzante della cara Barbara, una narratrice capace di donare al lettore delle metafore dalla rara potenza letteraria. Le sue descrizioni genuine e particolareggiate rendono poi l'ambientazione un membro a pieno titolo del cast, permettendo una facile immedesimazione nelle vite dei personaggi. Tra tante esistenze disgraziate, a spiccare è ovviamente la figura di Demon, con la sua voce disinvolta e sagace ci accompagna attraverso dei momenti genuinamente emozionanti, ma privi di quella retorica e di quel patetismo che un po' temevo sarebbero stati presenti.
Una spinta empatica non indifferente verso il protagonista, che si conferma il più grande punto di forza del titolo. A differenza del personaggio dickensiano medio, Demon risulta estremamente sfaccettato sul fronte caratteriale: capace tanto di impegnarsi in risoluzione positive, quanto di cedere alla tentazione delle scorciatoie e di farsi abbindolare dal prossimo. Una personalità molto più adatta ad un contesto contemporaneo -in cui la linea tra giusto e sbagliato non è mai netta-. resa ancor più incisiva dalla sua spigliata ed autocritica voce interiore, che si percepisce con chiarezza nelle sue battutine rivolte ai lettori.
Le stesse lodi non si possono però estendere ad una buona fetta dei comprimari, e penso specialmente ai personaggi adulti. C'è ben poca sottigliezza nella loro caratterizzazione: Mrs Peggot è buona e cara e tale rimane a prescindere da quante disgrazie le capitino, mentre Porta-Qui viene descritto come viscido ed infido sempre, non tenendo in considerazione che per la maggior parte del tempo lui ignora del tutto Demon. Tra i più giovani c'è un maggiore approfondimento, merito del percorso di crescita nel quale li vediamo impegnati; anche così non mancano comunque gli stereotipi indice di pigrizia narrativa, come quello del ragazzo emo-goth autolesionista.
In generale, questo libro non ha tanto degli evidenti difetti, quanto delle mancanze minori: il ritmo non è abbastanza incalzante, i commenti di Demon non sono abbastanza presenti, il comportamento del protagonista non è abbastanza in linea con la sua età anagrafica. La grande assente è però la trama, dal momento che la narrazione si limita ad essere una versione più attuale del romanzo di Dickens, con qualche piccola variazione; sono inoltre presenti diverse svolte all'apparenza molto importanti, ma nei fatti di ben poco conto tanto da venire riprese solo parecchi capitoli più avanti. Ed è così che difficoltà presentate come insormontabili vengono superate con grande facilità, incidendo sulla tensione narrativa.
Il problema dietro queste scelte autoriali poco convincenti è dato senza dubbio dalla volontà di rimanere fedele al materiale di partenza, un difetto comune a molte rivisitazioni di leggende mitologiche e di romanzi classici. In questo modo risultano depotenziati, ad esempio, l'antagonismo con Porta-Qui (che pur avendo libertà d'azione e molte leve a sua disposizione, agisce in modo caotico) o le relazioni romantiche che Demon intreccia nel corso della storia: prive di una solida base sentimentale, si concretizzano soltanto perché la sua controparte dickensiana aveva quei medesimi interessi amorosi. Per questo aspetto, un po' di coraggio narrativo in più non sarebbe affatto guastato.
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My rating: 4 of 5 stars
"Era quella, la vita che mi aspettava? Infilarmi dove la gente non mi voleva? Una volta ero qualcuno e poi ero andato a male, come il latte ... Un pezzetto marcio della torta americana che tutti avrebbero voluto semplicemente far sparire"
I RETELLING NON (MI) HANNO ANCORA STANCATO
Quando tutti sembrano star leggendo un determinato romanzo, quello è proprio il momento in cui la sottoscritta decide di evitarlo. In seguito, le strade percorribili sono due: mi intestardisco nel non voler recuperare il libro in questione mai e poi mai (com'è capitato negli anni con i famosissimi "Eragon", "Il cacciatore di aquiloni" o "I sette mariti di Evelyn Hugo", solo per nominarne alcuni) oppure capitolo dopo aver lasciato scemare l'hype rimanendo quasi sempre delusa dal risultato. Entrambe le alternative non sono il massimo, quindi quando ho ricevuto in regalo una copia di "Demon Copperhead" per il mio ultimo compleanno ho preso la saggia decisione di leggerlo entro la fine di questo poco soddisfacente 2024 letterario.
Ispirandosi per il titolo e non solo al "David Copperfield" di Dickens, Kingsolver racconta la vita di Damon Fields, nato sul finire degli anni Ottanta nella Lee Country in Virginia, da una madre tossicodipendente ed un padre morto diversi mesi prima. Narrato dal protagonista stesso, il romanzo ripercorre la vita del cosiddetto Demon Copperhead, dalla difficile nascita alla troppo breve infanzia, fino ad un'età adulta raggiunta ben prima di aver compiuto diciott'anni. Nel mentre vediamo l'alternarsi di fortune e sciagure, con il desiderio di far parte di una famiglia senza vincoli o date di scadenza sempre sullo sfondo.
Un altro cardine dell'intreccio è la dipendenza da sostanze, analizzata dall'autrice nei giusti tempi e dando ai risvolti più tragici il peso che meritano. La tematica della tossicodipendenza si collega bene agli altri argomenti toccati nel testo -come l'inadeguatezza dei servizi sanitario ed assistenziale, la dispersione scolastica, le disparità sociali- e riesce al tempo stesso a farsi allegoria di quella necessità trascendentale di affetto che caratterizza l'intera esistenza di Demon. Un bisogno che lo porta a compiere gesti tanto eclatanti quanto autodistruttivi, incapace di vedere delle vere alternative al suo declino.
Il tutto è convogliato tramite la prosa curata ed incalzante della cara Barbara, una narratrice capace di donare al lettore delle metafore dalla rara potenza letteraria. Le sue descrizioni genuine e particolareggiate rendono poi l'ambientazione un membro a pieno titolo del cast, permettendo una facile immedesimazione nelle vite dei personaggi. Tra tante esistenze disgraziate, a spiccare è ovviamente la figura di Demon, con la sua voce disinvolta e sagace ci accompagna attraverso dei momenti genuinamente emozionanti, ma privi di quella retorica e di quel patetismo che un po' temevo sarebbero stati presenti.
Una spinta empatica non indifferente verso il protagonista, che si conferma il più grande punto di forza del titolo. A differenza del personaggio dickensiano medio, Demon risulta estremamente sfaccettato sul fronte caratteriale: capace tanto di impegnarsi in risoluzione positive, quanto di cedere alla tentazione delle scorciatoie e di farsi abbindolare dal prossimo. Una personalità molto più adatta ad un contesto contemporaneo -in cui la linea tra giusto e sbagliato non è mai netta-. resa ancor più incisiva dalla sua spigliata ed autocritica voce interiore, che si percepisce con chiarezza nelle sue battutine rivolte ai lettori.
Le stesse lodi non si possono però estendere ad una buona fetta dei comprimari, e penso specialmente ai personaggi adulti. C'è ben poca sottigliezza nella loro caratterizzazione: Mrs Peggot è buona e cara e tale rimane a prescindere da quante disgrazie le capitino, mentre Porta-Qui viene descritto come viscido ed infido sempre, non tenendo in considerazione che per la maggior parte del tempo lui ignora del tutto Demon. Tra i più giovani c'è un maggiore approfondimento, merito del percorso di crescita nel quale li vediamo impegnati; anche così non mancano comunque gli stereotipi indice di pigrizia narrativa, come quello del ragazzo emo-goth autolesionista.
In generale, questo libro non ha tanto degli evidenti difetti, quanto delle mancanze minori: il ritmo non è abbastanza incalzante, i commenti di Demon non sono abbastanza presenti, il comportamento del protagonista non è abbastanza in linea con la sua età anagrafica. La grande assente è però la trama, dal momento che la narrazione si limita ad essere una versione più attuale del romanzo di Dickens, con qualche piccola variazione; sono inoltre presenti diverse svolte all'apparenza molto importanti, ma nei fatti di ben poco conto tanto da venire riprese solo parecchi capitoli più avanti. Ed è così che difficoltà presentate come insormontabili vengono superate con grande facilità, incidendo sulla tensione narrativa.
Il problema dietro queste scelte autoriali poco convincenti è dato senza dubbio dalla volontà di rimanere fedele al materiale di partenza, un difetto comune a molte rivisitazioni di leggende mitologiche e di romanzi classici. In questo modo risultano depotenziati, ad esempio, l'antagonismo con Porta-Qui (che pur avendo libertà d'azione e molte leve a sua disposizione, agisce in modo caotico) o le relazioni romantiche che Demon intreccia nel corso della storia: prive di una solida base sentimentale, si concretizzano soltanto perché la sua controparte dickensiana aveva quei medesimi interessi amorosi. Per questo aspetto, un po' di coraggio narrativo in più non sarebbe affatto guastato.
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martedì 15 ottobre 2024
"Rebel. Il tradimento" di Alwyn Hamilton
Rebel: Il tradimento by Alwyn Hamilton
My rating: 2 of 5 stars
"Quello che ad Ahmed mancava in forza era compensato dalla sua bontà. Era un uomo migliore di gran parte di noi ... ma mi sembrava che senza obbedienza un sovrano non potesse definirsi tale. Come avrebbe fatto Ahmed a governare il paese?"
LA CARA ALWYN NON PERDE NEPPURE IL PELO
Quando una serie comincia con un titolo debole come "Rebel. Il deserto in fiamme", le mie aspettative rispetto ai seguiti vengono notevolmente ridimensionate, così come l'interesse per la lettura degli stessi. Lasciata passare l'intera estate, mi sono però decisa a proseguire con "Rebel. Il tradimento", un secondo capitolo che conferma in toto i difetti del suo predecessore riuscendo comunque a fare qualche timido passo in avanti.
Dopo un salto temporale di ben sei mesi ritroviamo Amani come membro a pieno titolo della rivolta capeggiata dal cosiddetto Prinicipe Ribelle Ahmed contro lo strapotere del Sultano. Una serie di circostanze porta però la ragazza proprio all'interno dell'harem del sovrano, dal quale tenta di lavorare come spia a favore dei ribelli. Questa missione le permette di ritrovare alcune vecchie conoscenze e di scoprire quali siano i progetti del loro antagonista sul lungo periodo.
A fare da intercalare tra un'avventura e l'altra troviamo dei racconti folkloristici che -sebbene didascalici- risultano molto piacevoli ed in linea con il contesto scelto. Un altro elemento a favore del romanzo che però avrei voluto venisse trattato in maniera meno superficiale è quello delle tematiche; in primis, la violenza domestica e di genere: un po' di sottigliezza avrebbe giovato alla godibilità del contenuto, ma trovo comunque positivo impegnarsi per introdurre un pubblico giovane a determinati argomenti.
Tra i pregi di questo seguito mi sento di includere le nuove ambientazioni che risultano affascinanti ed abbastanza dettagliate, pur privandoci di una buona parte delle creature fantastiche presentate nel primo libro. Questo aspetto si compensa in parte con l'approfondimento fatto sui djinni e sulla loro mitologia di base, collegata ovviamente a quanto accade nel presente. Su un piano più soggettivo, ho gradito anche la minor presenza della componente romance, seppur sia necessario precisare che le poche scene romantiche sono quanto di più fuori luogo si potesse desiderare!
E passiamo dagli incerti punti a favore ai sicuri punti a sfavore. Come accennato, la maggior parte dei vecchi difetti è tutt'ora presente: svenimenti convenienti della narratrice, scene soltanto raccontate o lasciate all'interpretazione del lettore, intreccio banale, prosa infantile, descrizioni limitate, personaggi stereotipati, poca rilevanza per le scene traumatiche ed un'edizione italiana di certo rivedibile. Non escludo che la cara Alwyn si sia adoperata per migliorare, ma questo risultato fa capire quanta strada abbia ancora da percorrere.
Gli aspetti meno riusciti di questo capitolo nello specifico riguardano quasi esclusivamente l'intreccio, partendo proprio dagli eventi alla base dello stesso: l'allontanamento tra Amani e Jin da un lato, e la necessità di avere una spia a palazzo dall'altro. Il primo è causato da una serie di avvenimenti che non soltanto sono preclusi a noi lettori (visto che avvengono prima dell'inizio del volume), ma anche alla stessa protagonista che nel mentre era in fin di vita! Per quanto riguarda lo spionaggio, si tratta di uno dei tanti motivi per cui la strategia militare in questa storia fa ridere i polli: che bisogno c'è di una spia sempre in pericolo quando hai a tua disposizione dei demdji in grado di indovinare cosa fa il nemico e due mutaforma da poter inviare a palazzo con l'aspetto di animali?
Altri néi contenutisti (in)degni di nota sono le tante coincidenze -che permettono alla protagonista di incrociare sempre facce note in un regno vastissimo-, le dinamiche rubate ad un qualunque teen drama ambientato in un liceo americano, le regole magiche cambiate a seconda delle necessità autoriali, un'infelice scelta narrativa nel finale, l'assurdità di ogni elemento medico, le snervanti ripetizioni di nomi e parentele, e la presenza di scene del tutto immotivate. In quest'ultima categoria ricadono per esempio lo scambio fatto da Ayet per le forbici o Uzma che scopre la cicatrice di Amani giusto in tempo perché qualcuno la noti; la regola di fondo sembra essere: se è utile per la trama, per quanto improbabile succederà.
E come poteva la protagonista non rientrare nella categoria dei demeriti? Amani è fornita di una caratterizzazione a dir poco ballerina, che come tutto il resto varia per servire la narrazione. Hamilton cerca di spacciarla per una personaggia umile, che si incolpa in continuazione; peccato che le presunte colpe riguardino sempre elementi estranei, mentre le azioni per le quali si potrebbe in effetti chiederle conto e ragione vengano sapientemente glissate. È il caso del suo comportamento verso la cugina Shira (che cerca solo quando ne ha bisogno, senza preoccuparsi mai realmente per lei) e l'amico Tamid, con il quale dice di voler far pace ma si pone sempre in modo molto aggressivo. Le protagoniste imperfette mi piacciono, quelle passivo-aggressive molto meno.
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My rating: 2 of 5 stars
"Quello che ad Ahmed mancava in forza era compensato dalla sua bontà. Era un uomo migliore di gran parte di noi ... ma mi sembrava che senza obbedienza un sovrano non potesse definirsi tale. Come avrebbe fatto Ahmed a governare il paese?"
LA CARA ALWYN NON PERDE NEPPURE IL PELO
Quando una serie comincia con un titolo debole come "Rebel. Il deserto in fiamme", le mie aspettative rispetto ai seguiti vengono notevolmente ridimensionate, così come l'interesse per la lettura degli stessi. Lasciata passare l'intera estate, mi sono però decisa a proseguire con "Rebel. Il tradimento", un secondo capitolo che conferma in toto i difetti del suo predecessore riuscendo comunque a fare qualche timido passo in avanti.
Dopo un salto temporale di ben sei mesi ritroviamo Amani come membro a pieno titolo della rivolta capeggiata dal cosiddetto Prinicipe Ribelle Ahmed contro lo strapotere del Sultano. Una serie di circostanze porta però la ragazza proprio all'interno dell'harem del sovrano, dal quale tenta di lavorare come spia a favore dei ribelli. Questa missione le permette di ritrovare alcune vecchie conoscenze e di scoprire quali siano i progetti del loro antagonista sul lungo periodo.
A fare da intercalare tra un'avventura e l'altra troviamo dei racconti folkloristici che -sebbene didascalici- risultano molto piacevoli ed in linea con il contesto scelto. Un altro elemento a favore del romanzo che però avrei voluto venisse trattato in maniera meno superficiale è quello delle tematiche; in primis, la violenza domestica e di genere: un po' di sottigliezza avrebbe giovato alla godibilità del contenuto, ma trovo comunque positivo impegnarsi per introdurre un pubblico giovane a determinati argomenti.
Tra i pregi di questo seguito mi sento di includere le nuove ambientazioni che risultano affascinanti ed abbastanza dettagliate, pur privandoci di una buona parte delle creature fantastiche presentate nel primo libro. Questo aspetto si compensa in parte con l'approfondimento fatto sui djinni e sulla loro mitologia di base, collegata ovviamente a quanto accade nel presente. Su un piano più soggettivo, ho gradito anche la minor presenza della componente romance, seppur sia necessario precisare che le poche scene romantiche sono quanto di più fuori luogo si potesse desiderare!
E passiamo dagli incerti punti a favore ai sicuri punti a sfavore. Come accennato, la maggior parte dei vecchi difetti è tutt'ora presente: svenimenti convenienti della narratrice, scene soltanto raccontate o lasciate all'interpretazione del lettore, intreccio banale, prosa infantile, descrizioni limitate, personaggi stereotipati, poca rilevanza per le scene traumatiche ed un'edizione italiana di certo rivedibile. Non escludo che la cara Alwyn si sia adoperata per migliorare, ma questo risultato fa capire quanta strada abbia ancora da percorrere.
Gli aspetti meno riusciti di questo capitolo nello specifico riguardano quasi esclusivamente l'intreccio, partendo proprio dagli eventi alla base dello stesso: l'allontanamento tra Amani e Jin da un lato, e la necessità di avere una spia a palazzo dall'altro. Il primo è causato da una serie di avvenimenti che non soltanto sono preclusi a noi lettori (visto che avvengono prima dell'inizio del volume), ma anche alla stessa protagonista che nel mentre era in fin di vita! Per quanto riguarda lo spionaggio, si tratta di uno dei tanti motivi per cui la strategia militare in questa storia fa ridere i polli: che bisogno c'è di una spia sempre in pericolo quando hai a tua disposizione dei demdji in grado di indovinare cosa fa il nemico e due mutaforma da poter inviare a palazzo con l'aspetto di animali?
Altri néi contenutisti (in)degni di nota sono le tante coincidenze -che permettono alla protagonista di incrociare sempre facce note in un regno vastissimo-, le dinamiche rubate ad un qualunque teen drama ambientato in un liceo americano, le regole magiche cambiate a seconda delle necessità autoriali, un'infelice scelta narrativa nel finale, l'assurdità di ogni elemento medico, le snervanti ripetizioni di nomi e parentele, e la presenza di scene del tutto immotivate. In quest'ultima categoria ricadono per esempio lo scambio fatto da Ayet per le forbici o Uzma che scopre la cicatrice di Amani giusto in tempo perché qualcuno la noti; la regola di fondo sembra essere: se è utile per la trama, per quanto improbabile succederà.
E come poteva la protagonista non rientrare nella categoria dei demeriti? Amani è fornita di una caratterizzazione a dir poco ballerina, che come tutto il resto varia per servire la narrazione. Hamilton cerca di spacciarla per una personaggia umile, che si incolpa in continuazione; peccato che le presunte colpe riguardino sempre elementi estranei, mentre le azioni per le quali si potrebbe in effetti chiederle conto e ragione vengano sapientemente glissate. È il caso del suo comportamento verso la cugina Shira (che cerca solo quando ne ha bisogno, senza preoccuparsi mai realmente per lei) e l'amico Tamid, con il quale dice di voler far pace ma si pone sempre in modo molto aggressivo. Le protagoniste imperfette mi piacciono, quelle passivo-aggressive molto meno.
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mercoledì 9 ottobre 2024
"La custode di mia sorella" di Jodi Picoult
La custode di mia sorella by Jodi Picoult
My rating: 3 of 5 stars
"La maggior parte della gente mette al mondo un figlio per caso, o perché una certa sera ha bevuto troppo, o perché il controllo delle nascite non è sicuro al cento per cento, o per mille altre ragioni non proprio lodevoli. Io, invece, ero nata per uno scopo ben preciso"
UN FIGLIO PREFERITO C'È SEMPRE
Quando ho cominciato la lettura de "La custode di mia sorella" ero tanto esaltata per il titolo in sé (che continuo comunque a considerare una scelta geniale!) quanto dubbiosa del contenuto effettivo. Non si può negare che lo spunto sia decisamente interessante, ma capita spesso di leggere buone idee svilite in trame poco solide; da questo punto di vista, Picoult non mi ha propriamente deluso, ma ciò non toglie che da una premessa simile si potesse ricavare un romanzo più coerente e lineare.
La narrazione si apre su Upper Darby, città fittizia nello Stato del Rhode Island; qui vive tra molte difficoltà la famiglia Fitzgerald, causate soprattutto dall'aggressiva forma di leucemia che anni prima è stata diagnosticata alla figlia mediana Katherine "Kate". Letteralmente concepita per essere la donatrice perfetta per la sorella, la tredicenne Andromeda "Anna" si trova di fronte all'ennesima richiesta dei genitori: donare uno dei suoi reni per salvare ancora una volta la vita a Kate. In questo caso Anna decide però di opporsi, assumendo l'avvocato Campbell Alexander per intentare una causa di emancipazione medica contro la sua stessa famiglia.
Il volume è narrato in prima persona, alternando però diversi POV che mostrano le riflessioni di tutti i Fitzgerald, oltre a quelle di Campbell e della tutrice ad litem Julia Romano. Questa decisione inizialmente non mi convinceva troppo (specie per l'eccessiva retorica nei capitoli di Anna), ma pian piano ho realizzato che la cara Jodi era riuscita a rendere ben distinguibili le voci dei protagonisti. In generale, ho trovato caratterizzati in modo solido tutti i personaggi, attorno ai quali si sviluppano delle affascinanti dinamiche relazioni disfunzionali che sono forse il maggior pregio del libro.
Il volume è molto interessante anche per gli ottimi quesiti etici che suggerisce al lettore, a prescindere dal modo in cui l'intreccio li sfrutta: è giusto fare pressione morale su un donatore? o anteporre il benessere di una persona sana alla possibilità di salvarne una malata? oppure ancora concentrare la propria attenzione in via prioritaria su uno soltanto dei propri figli? Un altro pregio -decisamente inaspettato- si nasconde nella traduzione, che fornisce al lettore nostrano una gran quantità di utili informazioni socioculturali tramite note a fondo pagina. E per concludere questa carrellata di punti a favore, devo assolutamente nominare la partenza: le prime scene sono molto incisive, con Anna che prova a racimolare qualche soldo per poi presentarsi a Campbell, dando già un'idea della sua determinazione.
Questo incipit incisivo non viene però supportato dal resto della trama, anzi si percepisce quasi una lentezza narrativa, che si scontra nettamente con la teorica urgenza della donazione alla base della storia. Il rallentamento è dovuto in parte alla volontà dell'autrice di rendere ad ogni costo sensazionalistiche le sue scelte narrative, ma anche alla quantità di sottotrame inserite successivamente. Alcune di queste servono soltanto a distrarre e fuorviare (come nel caso del padre abusivo di Campbell), altre avrebbero effettivamente beneficiato di maggior attenzione per potersi amalgamare al resto dell'intreccio -e penso in particolare a quanto viene mostrato sul personaggio di Jesse, il figlio maggiore dei Fiztgerald-, e poi c'è Julia. L'inutile Julia, con i suoi immotivati pipponi moralisti, con l'ancor più inutile sorella gemella e con una delle romance più casuali e fuori luogo di cui abbia letto recentemente.
Altri demeriti a margine sono le battute inadatte al contesto (quella del cane guida soprattutto diventa fastidiosa dopo un po'), l'esasperazione delle disgrazie che capitano alla famiglia protagonista, la presenza ridottissima della prospettiva di Kate -di cui capisco la ragione, ma ritengo ugualmente che avrebbe meritato più spazio- e la scelta di limitare quasi sempre al passato il POV della madre Sara: sarebbe stato interessante scoprire i suoi pensieri prima del finale, anche perché gli altri protagonisti raccontano dei flashback senza per questo interrompere la narrazione al presente. E proprio l'epilogo condensa l'altra grossa critica al romanzo, perché a quel punto Picoult ha deciso di immolare sull'altare della commozione ad ogni costo tutte le riflessioni fatte prima sull'autodeterminazione; e le tirate paternalistiche ed inconcludenti durante il processo fanno da adeguato contorno.
Voto effettivo: tre stelline e mezza
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My rating: 3 of 5 stars
"La maggior parte della gente mette al mondo un figlio per caso, o perché una certa sera ha bevuto troppo, o perché il controllo delle nascite non è sicuro al cento per cento, o per mille altre ragioni non proprio lodevoli. Io, invece, ero nata per uno scopo ben preciso"
UN FIGLIO PREFERITO C'È SEMPRE
Quando ho cominciato la lettura de "La custode di mia sorella" ero tanto esaltata per il titolo in sé (che continuo comunque a considerare una scelta geniale!) quanto dubbiosa del contenuto effettivo. Non si può negare che lo spunto sia decisamente interessante, ma capita spesso di leggere buone idee svilite in trame poco solide; da questo punto di vista, Picoult non mi ha propriamente deluso, ma ciò non toglie che da una premessa simile si potesse ricavare un romanzo più coerente e lineare.
La narrazione si apre su Upper Darby, città fittizia nello Stato del Rhode Island; qui vive tra molte difficoltà la famiglia Fitzgerald, causate soprattutto dall'aggressiva forma di leucemia che anni prima è stata diagnosticata alla figlia mediana Katherine "Kate". Letteralmente concepita per essere la donatrice perfetta per la sorella, la tredicenne Andromeda "Anna" si trova di fronte all'ennesima richiesta dei genitori: donare uno dei suoi reni per salvare ancora una volta la vita a Kate. In questo caso Anna decide però di opporsi, assumendo l'avvocato Campbell Alexander per intentare una causa di emancipazione medica contro la sua stessa famiglia.
Il volume è narrato in prima persona, alternando però diversi POV che mostrano le riflessioni di tutti i Fitzgerald, oltre a quelle di Campbell e della tutrice ad litem Julia Romano. Questa decisione inizialmente non mi convinceva troppo (specie per l'eccessiva retorica nei capitoli di Anna), ma pian piano ho realizzato che la cara Jodi era riuscita a rendere ben distinguibili le voci dei protagonisti. In generale, ho trovato caratterizzati in modo solido tutti i personaggi, attorno ai quali si sviluppano delle affascinanti dinamiche relazioni disfunzionali che sono forse il maggior pregio del libro.
Il volume è molto interessante anche per gli ottimi quesiti etici che suggerisce al lettore, a prescindere dal modo in cui l'intreccio li sfrutta: è giusto fare pressione morale su un donatore? o anteporre il benessere di una persona sana alla possibilità di salvarne una malata? oppure ancora concentrare la propria attenzione in via prioritaria su uno soltanto dei propri figli? Un altro pregio -decisamente inaspettato- si nasconde nella traduzione, che fornisce al lettore nostrano una gran quantità di utili informazioni socioculturali tramite note a fondo pagina. E per concludere questa carrellata di punti a favore, devo assolutamente nominare la partenza: le prime scene sono molto incisive, con Anna che prova a racimolare qualche soldo per poi presentarsi a Campbell, dando già un'idea della sua determinazione.
Questo incipit incisivo non viene però supportato dal resto della trama, anzi si percepisce quasi una lentezza narrativa, che si scontra nettamente con la teorica urgenza della donazione alla base della storia. Il rallentamento è dovuto in parte alla volontà dell'autrice di rendere ad ogni costo sensazionalistiche le sue scelte narrative, ma anche alla quantità di sottotrame inserite successivamente. Alcune di queste servono soltanto a distrarre e fuorviare (come nel caso del padre abusivo di Campbell), altre avrebbero effettivamente beneficiato di maggior attenzione per potersi amalgamare al resto dell'intreccio -e penso in particolare a quanto viene mostrato sul personaggio di Jesse, il figlio maggiore dei Fiztgerald-, e poi c'è Julia. L'inutile Julia, con i suoi immotivati pipponi moralisti, con l'ancor più inutile sorella gemella e con una delle romance più casuali e fuori luogo di cui abbia letto recentemente.
Altri demeriti a margine sono le battute inadatte al contesto (quella del cane guida soprattutto diventa fastidiosa dopo un po'), l'esasperazione delle disgrazie che capitano alla famiglia protagonista, la presenza ridottissima della prospettiva di Kate -di cui capisco la ragione, ma ritengo ugualmente che avrebbe meritato più spazio- e la scelta di limitare quasi sempre al passato il POV della madre Sara: sarebbe stato interessante scoprire i suoi pensieri prima del finale, anche perché gli altri protagonisti raccontano dei flashback senza per questo interrompere la narrazione al presente. E proprio l'epilogo condensa l'altra grossa critica al romanzo, perché a quel punto Picoult ha deciso di immolare sull'altare della commozione ad ogni costo tutte le riflessioni fatte prima sull'autodeterminazione; e le tirate paternalistiche ed inconcludenti durante il processo fanno da adeguato contorno.
Voto effettivo: tre stelline e mezza
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venerdì 4 ottobre 2024
"L'uomo che morì due volte" di Richard Osman
L'uomo che morì due volte by Richard Osman
My rating: 4 of 5 stars
"Elizabeth sta portando dei fiori per Marcus Carmichael. Il morto. Il cadavere annegato ... L'uomo che lei aveva sepolto in un cimitero dello Hampshire, attualmente impegnato ad aprire le scatole del trasloco e a bisticciare con il nuovo wi-fi"
QUESTO È IL MIO COMMENTO?
Solitamente l'annuncio di un adattamento letterario non mi trasmette particolari emozioni, ma quando ho visto il cast scelto per portare sullo schermo la storia de "Il Club dei delitti del giovedì" sono rimasta senza parole: sono semplicemente perfetti per i loro ruoli! Inoltre da un po' speravo traessero un film oppure una serie da quel romanzo, vista anche la recente moda dei cozy mystery. Con questo rinnovato entusiasmo per la tetralogia mi sono quindi approcciata a "L'uomo che morì due volte", un secondo capitolo leggibile e comprensibile in modo indipendente, tenendo però conto che spoilera in parte le rivelazioni del precedente romanzo.
Sulla scena tornano i membri del Club che dà il titolo alla serie: gli ultra settantenni Elizabeth, Joyce, Ibrahim e Ron; oltre al tuttofare Bogdan, agli agenti di polizia Chris e Donna, e ad un nutrito gruppo di nuovi caratteri che danno il via alla seconda indagine. Nella residenza per anziani di Coopers Chase arriva infatti Marcus Carmichael, una vecchia conoscenza di Elizabeth: si tratta di uno pseudonimo utilizzato dal suo ex marito Douglas Middlemiss, che cerca un nascondiglio sicuro dopo aver rubato venti milioni in diamanti ad un criminale locale. Mentre il Club si attrezza per proteggere l'uomo, vengono portate avanti in parallelo un'indagine a carico della narcotrafficante Connie Johnson e la vendetta contro il teppista Ryan Baird.
Un bel po' di grattacapi in quel di Fairhaven! a mio avviso troppi per analizzare tutti nel modo migliore. Infatti, la linea di trama collegata a Douglas occupa la maggior parte della narrazione, e le altre sono costrette a convergervi a forza. Questo incide soprattutto sulla sottotrama dedicata ad Ibrahim, che per l'appunto ottiene solo una manciata di scene di sviluppo ed una risoluzione fuori pagina a dir poco frustrante, specie perché si dovrebbe parlare con più cognizione di PTSD. La stessa frettolosità superficiale ricade anche sui flashback di Bodgan e la (presumo) depressione di Donna: tutto sistemato tra una battuta e l'altra.
Anche a livello di trama avrei alcune note non proprio positive. In linea generale, ho trovato l'intreccio meno coinvolgente e misterioso del previsto; memore della complessità e dell'inventiva dimostrate dal caro Richard nel suo debutto, mi sarei aspettata un giallo più articolato, e sicuramente meno ripetitivo nelle dinamiche. Per quanto mi riguarda, la ricerca dei diamanti rubati non mi è sembrata un innesco abbastanza convincente -in fin dei conti i protagonisti non sono i derubati e per loro ritrovare il maltolto significa ben poco-, mentre lo smascheramento dell'assassino sarebbe stato entusiasmante se le vittime non fossero state tanto ambigue per buona parte del volume.
In compenso, trovo che il finale sia stato decisamente soddisfacente, sia per l'escamotage che viene ideato da Ron per far giustizia, sia per come viene spiegato il piano del colpevole. Mi è piaciuta parecchio anche la conclusione data alla romance di Chris: una relazione credibile e dolce senza sfociare in un'eccessiva zuccherosità. Tra i pregi finisce ovviamente la caratterizzazione sopra le righe dei personaggi che rende la lettura piacevolmente esilarante, si tratti dell'adorabile svampitaggine di Joyce o delle priorità tutte sfasate di Lomax.
Tra un'avventura e l'altra, Osman riesce ad includere anche qualche parentesi di serietà, infatti in questo libro si torna a parlare di Alzheimer, di confronto generazionale e dei diversi modi in cui le persone anziane si pongono rispetto al mondo contemporaneo. Si tratta di parentesi molto ridotte ma assai gradite, perché riescono a fornire un quadro abbastanza verosimile nel quale racchiudere delle vicende che spesso non lo sono neanche lontanamente.
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My rating: 4 of 5 stars
"Elizabeth sta portando dei fiori per Marcus Carmichael. Il morto. Il cadavere annegato ... L'uomo che lei aveva sepolto in un cimitero dello Hampshire, attualmente impegnato ad aprire le scatole del trasloco e a bisticciare con il nuovo wi-fi"
QUESTO È IL MIO COMMENTO?
Solitamente l'annuncio di un adattamento letterario non mi trasmette particolari emozioni, ma quando ho visto il cast scelto per portare sullo schermo la storia de "Il Club dei delitti del giovedì" sono rimasta senza parole: sono semplicemente perfetti per i loro ruoli! Inoltre da un po' speravo traessero un film oppure una serie da quel romanzo, vista anche la recente moda dei cozy mystery. Con questo rinnovato entusiasmo per la tetralogia mi sono quindi approcciata a "L'uomo che morì due volte", un secondo capitolo leggibile e comprensibile in modo indipendente, tenendo però conto che spoilera in parte le rivelazioni del precedente romanzo.
Sulla scena tornano i membri del Club che dà il titolo alla serie: gli ultra settantenni Elizabeth, Joyce, Ibrahim e Ron; oltre al tuttofare Bogdan, agli agenti di polizia Chris e Donna, e ad un nutrito gruppo di nuovi caratteri che danno il via alla seconda indagine. Nella residenza per anziani di Coopers Chase arriva infatti Marcus Carmichael, una vecchia conoscenza di Elizabeth: si tratta di uno pseudonimo utilizzato dal suo ex marito Douglas Middlemiss, che cerca un nascondiglio sicuro dopo aver rubato venti milioni in diamanti ad un criminale locale. Mentre il Club si attrezza per proteggere l'uomo, vengono portate avanti in parallelo un'indagine a carico della narcotrafficante Connie Johnson e la vendetta contro il teppista Ryan Baird.
Un bel po' di grattacapi in quel di Fairhaven! a mio avviso troppi per analizzare tutti nel modo migliore. Infatti, la linea di trama collegata a Douglas occupa la maggior parte della narrazione, e le altre sono costrette a convergervi a forza. Questo incide soprattutto sulla sottotrama dedicata ad Ibrahim, che per l'appunto ottiene solo una manciata di scene di sviluppo ed una risoluzione fuori pagina a dir poco frustrante, specie perché si dovrebbe parlare con più cognizione di PTSD. La stessa frettolosità superficiale ricade anche sui flashback di Bodgan e la (presumo) depressione di Donna: tutto sistemato tra una battuta e l'altra.
Anche a livello di trama avrei alcune note non proprio positive. In linea generale, ho trovato l'intreccio meno coinvolgente e misterioso del previsto; memore della complessità e dell'inventiva dimostrate dal caro Richard nel suo debutto, mi sarei aspettata un giallo più articolato, e sicuramente meno ripetitivo nelle dinamiche. Per quanto mi riguarda, la ricerca dei diamanti rubati non mi è sembrata un innesco abbastanza convincente -in fin dei conti i protagonisti non sono i derubati e per loro ritrovare il maltolto significa ben poco-, mentre lo smascheramento dell'assassino sarebbe stato entusiasmante se le vittime non fossero state tanto ambigue per buona parte del volume.
In compenso, trovo che il finale sia stato decisamente soddisfacente, sia per l'escamotage che viene ideato da Ron per far giustizia, sia per come viene spiegato il piano del colpevole. Mi è piaciuta parecchio anche la conclusione data alla romance di Chris: una relazione credibile e dolce senza sfociare in un'eccessiva zuccherosità. Tra i pregi finisce ovviamente la caratterizzazione sopra le righe dei personaggi che rende la lettura piacevolmente esilarante, si tratti dell'adorabile svampitaggine di Joyce o delle priorità tutte sfasate di Lomax.
Tra un'avventura e l'altra, Osman riesce ad includere anche qualche parentesi di serietà, infatti in questo libro si torna a parlare di Alzheimer, di confronto generazionale e dei diversi modi in cui le persone anziane si pongono rispetto al mondo contemporaneo. Si tratta di parentesi molto ridotte ma assai gradite, perché riescono a fornire un quadro abbastanza verosimile nel quale racchiudere delle vicende che spesso non lo sono neanche lontanamente.
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