«Il terzo della compagnia era un gatto sbucato da chi sa dove, grosso come un maiale, nero come il carbone o come un corvo, con tremendi baffi da cavalleggero»
Un classico al mese
"Il Maestro e Margherita" di Michail Bulgakov
TITOLO: Il Maestro e Margherita
TRADUTTORE: Vera Dridso
EDITORE: Einaudi
COLLANA: ET Classici
PAGINE: 410
VOTO: 5 stelline
"Il Maestro e Margherita" è un
romanzo che potrebbe rientrare in diversi generi perché racchiude in se tante
storie: ci sono elementi esoterici quasi fantasy e scene grottesche più vicine
al thriller moderno, una relazione romantica affiancata a momenti comici che
strappano sempre una risata. A conti fatti, direi che la componente più
rilevante è quella del thriller dal momento che essa guida la maggior parte
della trama, ma non vanno sottovalutati tutti gli altri elementi.
La storia è ambientata nella Russia
post-rivoluzionaria e si sviluppa nell'arco di pochi giorni: inizia con
l'apparizione di Satana, sotto le mentite spoglie dell'illusionista Woland, per
le vie di Mosca e termina quando l'essere sovrannaturale ed il suo diabolico
seguito -una volta terminata la loro missione- lasciano la città, mentre i
moscoviti cercano di ricostruire quanto successo in modo razionale; nel mezzo,
un susseguirsi di scene oniriche, surreali e riferimenti biblici così frequenti
da rivaleggiare con le citazioni a Puškin,
«"[...] un tale mi segue dappertutto con la sua pergamena di capra e trascrive di continuo le mie parole. Ma una volta ho dato un'occhiata a quella pergamena e sono rimasto inorridito. Di tutto quello che c'era scritto, non avevo detto una parola."»
che vanno a creare
una sorta di vangelo apocrifo, concentrato sulle figure di Levi Matteo, di Guida
di Kiriat e -soprattutto- del quinto procuratore della Giudea, il cavaliere
Ponzio Pilato.
A dispetto di quanto promesso da Eugenio
Montale in quarta di copertina, Woland non è propriamente il protagonista della
storia, pur essendo uno dei personaggi centrali: per assurdo, molto più spazio
viene concesso ai suoi accoliti, che si fanno riconoscere per l'inconfondibile
humour nero e la capacità di causare scompiglio per la città. Oltre a mescolare
assieme tanti generi, Bulgakov crea infatti un romanzo corale, tanto che il
lettore si affeziona alle storie di Ivan, del Maestro e di Margherita quanto a
quelle dei loro comprimari. Si notano anche dei netti parallelismi, soprattutto
come l'autore associ se stesso alla figura del Maestro e, di conseguenza, a
quella di Jeshua Hanozri.
La narrazione è caratterizzata dal già citato
umorismo tetro, che ben si adatta alle tante scene forti e quasi splatter,
«Ohimè, gridavano invano: non poteva telefonare, Michail Aleksandrovič. Lontano, molto lontano dal Gridoedov, in una sala enorme illuminata da lampadine di mille candele, giaceva su tre tavoli zincati ciò che ancora poco prima era stato Michael Aleksandrovič.»
ma anche dalle interruzioni nelle quali l'autore si rivolge in modo diretto ai suoi lettori, spesso con l'intenzione di richiamare l'attenzione dell'audience.
«E lei parla di marene e di pesce persico! E le beccacce, i beccaccini, i tordi, [...] Ma fermiamoci qui, ti stai distraendo, lettore! Seguimi!...»
Risulta da subito palese, anzi molto
evidente, l'intento satirico del romanzo: nei confronti della società russa
dell'epoca, del regime dittatoriale stalinista,
«"Tra l'altro, ho detto," raccontò il prigioniero, "che ogni potere è violenza sull'uomo, e che verrà un tempo in cui non vi saranno né potere, né cesari, né qualsiasi autorità. [...] non occorrerà alcun potere."»
e dell'elite dei
letterati; non a caso il diabolico turista e i demoni al suo servizio si
trovano ad interagire quasi esclusivamente con autori, critici e figure
collegate al mondo dell'arte in generale, ed il loro scopo è una sorta di
vendetta. Pur essendo presentati come personaggi negativi, Woland e soci hanno
un fine quasi nobile, e le persone che colpiscono vengono dipinte da Bulgakov
come meritevoli di quel danno.
La critica verso la mentalità contorta del
regime è espressa dalle reazioni dei cittadini alle straordinarie imprese di
Korov'ev e Behemoth: i moscoviti si chiamano a vicenda "compagni" e
chiedono la Nostra Marca, ma alla prima occasione bramano la ricchezza
personale e dimenticano i loro alti ideali, e a volte persino la ragione.
«Anche l'odore non lasciava adito a sospetti: era il delizioso odore inconfondibile del denaro appena stampato. [...] Qualcuno era a quattro zampe nel passaggio tra le poltrone, frugava sotto i sedili. Molti erano saliti sulle poltrone per acchiappare le banconote sventate e capricciose.»
Andando oltre la satira, sono presenti riflessioni sulla natura umana, in una serie di nette contrapposizioni: tra l'ateismo imposto dallo Stato e la fede che ancora resiste (come vediamo nella scena in cui Ivan vaga per la città sotto shock reggendo un cero votivo), tra destino prestabilito e libera scelta,
«"[...] ma non riesce a fare neppure quella, perché scivola e va finire sotto un tram! Non mi verrà mica a dire che è stato lui a dirigere se stesso in quel modo!"»
tra l'innocenza di
chi viene arrestato in modo arbitrario e la colpa di coloro che invece riescono
a rimanere impuniti.
Bisogna essere molto pignoli per non
apprezzare a pieno questo romanzo. Dovendo trovare comunque una critica,
ritengo un po' ripetitive le scene in cui i seguaci di Woland (Margherita e Nataša
comprese) portano alla pazzia i moscoviti; tra l'altro non è chiaro perché mantengano
la loro messinscena una volta smascherati: ad esempio, quando Poplavskij sente
parlare il gatto Behemoth, perché Korov'ev continua a fingersi addolorato,
«Da lontano giungevano i singhiozzi di Korov'ev, [...].»
per la morte di Berlioz? ormai lo zio di Michail dovrebbe aver capito perfettamente che gli inquilini dell'appartamento non sono persone comuni, quindi tanto valeva smettere l'inutile sceneggiata.
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